Torino Film Festival: 25 novembre. Il punto e l’intervista di Nanni Moretti a Claudio Caligari

Quarta giornata di programmazione del TFF. Come già accennato nei trascorsi punti giornalieri, la 26ma rassegna festivaliera piemontese è caratterizzata da numerose sezioni tematiche che spaziano dalla politica con “lo stato delle cose”, a “la zona”, in cui l’istinto di ricerca del festival si concentra nei territori del cinema meno allineato alle traiettorie convenzionali, alla “internazionale DOC”, una nuova sezione, non competitiva, dedicata al cinema documentario proveniente da tutto il mondo.

Un’altra novità importante è la sezione “l’amore degli inizi, rivolta a 6 esordi italiani di fine anni Settanta e inizio Novanta, che propone i primi film di Giuseppe Bertolucci, (intervista pubblicata nel nostro punto giornaliero di ieri), Claudio Caligari, Peter Del Monte, Marco Tullio Giordana, Salvatore Piscicelli e Paolo Virzì.

E la giornata del 25 novembre è stata caratterizzata da due pellicole, rispettivamente di Del Monte e Caligari, quest’ultimo intervistato dal direttore del festival, in un incontro aperto al pubblico.

Irene, Irene, film del 1975 di Peter Del Monte, in cui si narra la storia di Guido Boeri. Magistrato sessantenne di Firenze, tornando a casa non trova più la moglie Irene, con la quale viveva da trent’anni in apparente armonia. Dopo un periodo di riposo sul Lago Maggiore si trasferisce a Roma dal figlio Silvano. Quando apprende la notizia della morte della moglie parte per Cividale, dove assiste al funerale e interroga la cognata e Nino, amico e confidente di Irene, per cercare di capire perché lei lo avesse abbandonato. Si troverà invece a fare i conti con la vacuità della sua stessa esistenza.

Irene, Irene, è un film di cui si è discusso molto, forse perché appartiene a un’epoca in cui i debutti decenti erano pochi. A rivederlo oggi mi sembra un film un pochino scolastico come impostazione di recitazione. Si sente che il regista è impaurito di fronte a certe incognite che un attore di volta in volta gli può presentare, rispetto a un’idea a priori che lui si è fatto del film. D’altra parte è invece un film che tiene molto da un punto di vista
“figurativo”.

Amore Tossico, Italia 1983, di Claudio Caligari. Tra le spiagge di Ostia, un gruppo di tossicodipendenti trascorre tutta la giornata cercando con ogni mezzo di procurarsi l’eroina. Accattonaggio, furti, rapine, prostituzione. In questo scenario da incubo, Cesare e Michela decidono di uscire definitivamente dal giro, dopo che Cesare era stato sul punto di uccidere la ragazza e di togliersi a sua volta la vita. Prima di smettere, decidono di concedersi un’ultima dose, che sarà però il preludio di un tragico destino.

Claudio Caligari ha esordito alla regia con una serie di documentari sulle sottoculture giovanili degli anni ’60 e ’70, fra cui Droga che fare, diretto insieme a Daniele Segre, Alice e gli altri, un film sul declino del movimento del ’77, e La follia della rivoluzione, sulle contestazioni al convegno di psicanalisi del 1976. Nel 1983 ha girato il suo primo lungometraggio di finzione, Amore tossico, vincitore del premio speciale Sezione De Sica alla Mostra del Cinema di Venezia, del Premio Selezione Speciale al Festival di Valencia e della Migliore interpretazione femminile al Festival di San Sebastian.

Dopo una assenza di quindici anni è tornato al cinema con L’odore della notte (1998), interpretato da Valerio Mastandrea e presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

In relazione al film Amore tossico, il regista dichiara:

«Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 la droga pesante cominciò a diffondersi in Italia. I media e i giornali iniziarono quindi a occuparsi del fenomeno, utilizzando normalmente dei filtri abbastanza pietistici che spesso tralasciavano la fenomenologia della sostanza stessa e gli effetti immediati (il piacere) che procurava, per cui alla fine risultava del tutto inspiegabile perché le persone ne facessero uso. Poiché io e Guido Blumir conoscevamo bene quel mondo, decidemmo di realizzare un film di finzione sul fenomeno, con l’idea di mettere in scena proprio la realtà della situazione».

Di seguito, l’edizione integrale dell’intervista di Moretti al regista di Amore tossico:

Nanni Moretti: Il film già dalle sue location (Ostia e quartieri romani come Centocelle) mi sembra debba molto a Pasolini. Non è quindi un caso che il finale si svolga proprio sul monumento eretto sul luogo della morte del poeta. Già scrivendo il film con il sociologo
Guido Blumir avevate in mente i personaggi, i libri, i film di Pasolini?

Claudio Caligari: Assolutamente. L’idea iniziale era di realizzare un film sul fenomeno della droga che sfuggisse alle modalità superficiali con cui veniva inquadrato dai media.

N.M.: In quegli anni erano usciti alcuni film sulla droga come Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino o Contate su di noi. Li avevi visti? Cosa ne pensavi?

C.C.: Mi sembra che anche Squiteri avesse realizzato un film sull’argomento e mi ricordo un film con Helmut Berger. Comunque l’unico che conoscevo era Christiane F. – Noi, i
ragazzi dello zoo di Berlino e non mi soddisfaceva per niente. Era proprio il genere di
opera un po’ commerciale con l’attrice carina e la musica di David Bowie da cui volevo
allontanarmi.

C.C.: Tornando a Pasolini, come tu giustamente sottolineavi, già la scelta delle location era un chiaro riferimento. Infatti in realtà sui giornali si parlava molto del Nordest (Verona), ma io ho deciso ugualmente di scegliere Roma. Anche l’idea di dedicarmi agli strati sociali bassi e non invece quelli più borghesi (dove la droga girava ugualmente) deve molto a
Pasolini. Si può dire che volevo tornare nei suoi luoghi per verificare cosa era cambiato:
cosa era successo nel momento che accattone prendeva la droga. Non è un caso che uno
degli ultimi interventi di Pasolini poco prima di morire era proprio legato al fenomeno
della droga di cui denunciava l’estrema pericolosità. Un fenomeno di cui io volevo
descrivere l’aspetto tragico. Se infatti per le fasce alte della popolazione si trattava di
semplice consumo, per quelle più basse l’effetto era molto più devastante. Mi è capitato di
visitare proprio i quartieri pasoliniani e non c’è strada, condominio o famiglia che non
abbia un morto per droga, un malato di AIDS o un amico e parente in galera a causa di
questo dilagare.

N.M.: Già durante la fase della sceneggiatura avevi in mente gli attori e le attrici protagonisti, magari conoscendoli, o la scelta del cast è avvenuta in un secondo tempo?

C.C.: In realtà il progetto è nato in maniera molto libera. Io e Guido Blumir conoscevamo molto bene l’ambiente e il fenomeno della droga, io perché avevo realizzato dei
documentari e Blumir perché aveva scritto molti libri sull’argomento. Ricordo che la prima
volta che mi accorsi del dilagare della droga fu a Milano quando visitando un centro sociale
a Brera, arrivai un una stanza con decine e decine di tossici: una scena impressionante. Per
quanto riguarda il cast, l’unica mia certezza è che volevo persone prese dalla strada, nessun
attore professionista, in questo seguendo l’esempio del neorealismo.
Mi occorsero parecchi mesi comunque per poter entrare nel giro. Chiaramente c’era molta
diffidenza e solo dopo due, tre mesi riuscì a conquistarmi la fiducia di tutti, oltre a
identificare quelli che sarebbero poi stati gli attori protagonisti. Non dissi che ero lì per
realizzare un film, all’inizio feci credere che la mia idea era di scrivere un libro. Con il
tempo però, quando capirono che c’era confidenza e condivisione sia politica che artistica,
si stabilì un rapporto di totale fiducia che fu fondamentale per il film. Mi ricordo che la
sceneggiatura fu corretta e cambiata quasi parola per parola, in modo tale da essere più
vera e autentica possibile, grazie ai consigli degli stessi protagonisti e di chi frequentava
quel mondo.

N.M.: So invece che il periodo delle riprese fu lungo e travagliato.

C.C.: Si svolsero in due anni differenti, il 1982 e il 1983. Il problema fu che all’inizio avevo preso accordi con un piccolo produttore che poi improvvisamente abbandonò il progetto. Avevo girato solo un terzo del film e dovetti restare fermo quasi un anno. Era un grosso
problema, visti i miei attori, rimanere bloccato così a lungo.

N.M.: L’intervento di Ferreri fu fondamentale?

C.C.: Si. Fu grazie a lui che riuscii a contattare il secondo produttore alla fine del 1982. Si trattava di Giorgio Nocella che aveva già prodotto Identificazione di una donna di
Antonioni e Tre fratelli di Rosi. Ferreri fu uno sponsor culturale eccezionale e devo a lui
anche la distribuzione (la Gaumont).

N.M.: Il film fu presentato a Venezia e ricordo una conferenza stampa molto
movimentata.

C.C.: Mi ricordò che fu lunghissima (più di due ore) e c’era «cavallo pazzo» che voleva farsi una pera in diretta… Anche in quel caso la presenza di Ferreri fu importantissima. Divenne in un certo senso l’evento dell’anno.

N.M.: Hai avuto problemi con la censura?

C.C.: Ovviamente. Il punto era che non sapevano da dove cominciare a tagliare… Inizialmente doveva essere vietato ai minori di 18 anni, ma riuscimmo ad abbassare il
divieto a 14.

N.M: Come sei riuscito a evitare i due rischi fondamentali di un film del genere: il sadismo nei confronti dello spettatore e il compiacimento nei confronti degli attori?

C.C.: Credo con l’incoscienza e l’innocenza totale (vale a dire con l’onestà totale) con cui è stato fatto. Più che il neorealismo, il mio modello era De Seta: immergersi completamente in un ambiente, comprenderlo a fondo e quindi restituirlo con grande sincerità.

N.M: Che tipo di problemi hai avuto durante la lavorazione.?

C.C.: «Ciò» fu arrestato con 100 grammi di hashish e riuscimmo a farlo uscire dopo soli tre giorni grazie a un gruppo di avvocati di grido… una cosa di cui mi vergognai un po’.

N.M: Le due scene della morte di Michela e della corsa finale di Cesare erano previste già in sceneggiatura o sono nate durante le riprese?

C.C.: So quello che stai pensando: è da trent’anni che mi assillano (anche ieri l’ho letto sul giornale) con il fatto che il finale è melò e rovina tutto. Ma è un chiaro riferimento al
Pasolini. Sono d’accordo che tutto il film si sviluppa in senso antinarrativo e
antiromanzesco, ma il fatto che con il progredire della vicenda due personaggi diventano
sempre più importanti era previsto fin dall’inizio. Il finale poi è un chiaro omaggio, come
dicevo prima, ad Accattone e Mamma Roma. Anche l’ultima inquadratura, di chiaro
stampo cristologico. Per me era fondamentale esprimere l’idea che la risposta dello stato
nei confronti della droga era la morte. Ed è un’analisi che difendo tuttora.

N.M: Le musiche sono di Mariano Detto, che proveniva dal clan di Celentano: come mai questa scelta?

C.C.: Inizialmente avevamo contattato un altro musicista, ma all’ultimo ha abbandonato. Mancava un mese alla proiezione veneziana e così si è deciso di coinvolgere Detto. So che in un certo senso stridono con il progetto e l’opera, ma da warholiano credo nella
mescolanza di materiale basso o popolare. Certo Bach era meglio, ma a quel punto
l’omaggio pasoliniano forse era esagerato… Non credo comunque che bisogna per forza
utilizzare musica seria (Stockhausen per esempio) per realizzare un film importante e
significativo. E poi avessimo avuto più tempo…

N.M: C’era credo una volontà non solo legata alla necessità di raccontare una vicenda, ma anche quella di informare su un fenomeno per farne capire l’importanza.

C.C.: I media trasmettevano un’idea pietistica e imprecisa del fenomeno. Forse c’erano anche dei motivi politici. Il fatto era che se per certi strati della società si trattava di un semplice consumo, per altri diveniva un’emergenza anche economica. Il film fu così un
vero e proprio shock e non solo a livello cinematografico.

N.M.: Dopo Amore tossico sono passati quindici anni prima che uscisse un altro tuo film. Come mai?

C.C.: Il problema fu che il film era l’esatto contrario del cinema che veniva avanti. Anche a livello produttivo in quegli anni avvenne una vera e propria rivoluzione (non solo a causa di chi sappiamo bene) con il sempre maggior coinvolgimento della televisione.

N.M.: In effetti se ancora alla fine degli anni ’70 la TV interveniva minimamente, già dalla metà del decennio successivo, la partecipazione produttiva televisiva era del 20, 30, 40%. E il problema fu che cominciò a condizionare il cinema non solo da un punto di vista economico, ma anche a livello di temi, soggetti, sceneggiature. Innescando un processo
anche di autocensura.

C.C.: Il mio secondo film, L’odore della notte, nacque da un libro che avevo letto già mentre lavoravo ad Amore tossico di un giornalista del «Messaggero» e incentrato su una banda di rapinatori che aveva letteralmente terrorizzato la borghesia romana per circa
quattro anni verso la fine degli anni ’70. Mi affascinava il «pendolarismo» di questo fenomeno. I rapinatori provenivano tutti da quartieri popolari e avevano deciso di assaltare i quartieri bene, ma senza illusioni o alcuna prospettiva ideologica: c’era solo rabbia e proprio per questo mi pareva un fenomeno molto simbolico e metaforico.

N.M: Si trattava di un film molto differente dal primo, meno crudo e realistico. Anche solo per la scelta di utilizzare attori professionisti.

C.C.: Il migliore fu Little Tony. Faceva esattamente quello che gli dicevi: un vero professionista.

C.C.: Ho anche il progetto di un terzo film, legato al dilagare del consumo di droga tra i preadolescenti, ma per ora è in sonno. Non c’è neanche una sceneggiatura completata e quindi non posso dire se e quando si realizzerà. In realtà non vedo grande differenza per quanto riguarda questo fenomeno dai tempi di Amore tossico a oggi. La droga era già normalizzata, un fenomeno accettato, già nel 1983. Lo scandalo (se c’è ancora una possibilità oggi di scandalizzare) è rappresentato dall’abbassamento dell’età fino alla preadolescenza. Ma è una fascia d’età che oggi viene raggiunta da un modello di riferimento basato sul puro scambio economico e da un’ideologia del dominio dell’uno sull’altro. Nella mia idea, il film dovrebbe infatti essere contraddistinto dal continuo passare di banconote da una mano all’altra.

C.C.: In Amore tossico, a differenza di altri film sullo stesso argomento, non concedo speranza finale. Questo deriva dal fatto che per me anche all’epoca la droga era una strada senza uscita. È vero che alcuni ne sono usciti, ma per la maggior parte ha significato la
morte o la malattia.

C.C.: Sono stato criticato per l’uso di una voce narrante troppo romanzesca in L’odore della notte. Era di Valerio Mastandrea. Per alcuni non era verosimile. Rimango però
convinto della mia scelta: non so se i pensieri di Madame Bovary, così come li leggiamo nel
romanzo di Flaubert, corrispondevano veramente a quelli di una piccolo borghese di campagna della Francia di metà ‘800.

N.M.: 1983-2008. Com’è cambiata l’Italia e il cinema italiano in questi venticinque anni?

C.C.: Credo che oggi un film come Amore tossico non sarebbe possibile. E non parlo solo a livello produttivo, ma anche di volontà. Mancano persone come Ferreri o una società come la Gaumont. Un’opera di tale rottura oggi non è possibile. Anche a livello politico secondo
me non te lo permetterebbero. All’epoca, eravamo riusciti a fregarli, oggi non sarebbe
possibile.

C.C.: Gli attori di Amore tossico sono stati scelti dalla strada, ma con veri provini realizzati nei Sat (i Cert di oggi) romani. All’EUR visionammo oltre 600 persone. Scegliemmo
comunque quelli con un talento recitativo. Mi ricordo che Fuller premiò Michela al festival di san Sebastian.

C.C.: Chiaramente tutte le pere sono finte. Sarebbe stato induzione di reato. Ferreri personalmente aveva voluto la presenza costante di almeno due medici sul set. Usammo
varie sostanze: acqua distillata se la pera era trasparente e una sostanza disintossicante
quando dovevamo far finta che fosse il tipo di eroina chiamato brown sugar. Una cosa che infastidiva parecchio gli attori…

N.M.: Nella sequenza con la pittrice (interpretata da Patrizia Vicinelli, la poetessa che aveva anche fatto parte del gruppo ’63) tutti si fanno una dose e poi schizzano il sangue sulla tela dicendo: «Questo si che è un quadro vero». Com’è nata questa scena?

C.C.: L’eroina aveva invaso letteralmente tutta l’Italia. Anche un paese piccolo come Arona, la zona da cui io provengo, aveva i suoi tossici. Proprio ad Arona mi era stato raccontato di una persona che dopo essersi fatto una dose, schizzava il proprio sangue sul
muro. E la cosa mi era rimasta in mente. Quella sequenza doveva essere molto più lunga e
Patrizia doveva fare un discorso molto più complesso e teorico sul rapporto tra l’arte, la droga e il mercato. Poi abbiamo dovuto tagliare e semplificare la scena. La musica che si sente era stata scritta da Detto per la sequenza del cesso. Si trasformò così da musica per cesso a musica per arte.

C.C.: Non persi di vista i protagonisti del film. Cesare doveva fare un film con Peter del Monte che poi non si realizzò e fu uno dei primi a contrarre l’AIDS in Italia. Non lo disse a nessuno e io ricostruii la vicenda a posteriori. Mi ricordo ancora il titolo di un giornale
quando si spense: «Un amore tossico morto di eroina». Ciopper invece vive e lotta insieme
a noi: lavora alla posta di Ostia. Enzo Di Benedetto si è trasferito in Sardegna. Di Loredana
invece ho perso le tracce, ma c’è chi dice che sia morta a Rebibbia qualche anno fa.