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Abbiamo visto “ Biutiful “ diretto da Alejandro Gonzalez Inarritu.
Inarritu è uno dei più innovativi e audaci registi in circolazione, a meno di quarant’anni è diventato un Maestro del Cinema mondiale, con il capolavoro “ 21 grammi “ ( 2003 ) che ha ripreso e rinnovato il linguaggio “ più estremo “ che il Cinema di botteghino potesse accettare. Ma come a volte succede per la sua ‘ grandeur ‘ non si può non ricordare l’unione con lo scrittore Guillermo Arriaga. Con lui, immenso scrittore di Cinema, Inarritu ha dato il suo meglio ( e viceversa ) portando sulle scene film emozionanti, forti e importanti come “ Amores perros “ ( 2000 ), l’episodio del film collettivo “ 11 Settembre “ ( 2002 ) e “ Babel “ ( 2006 ). Poi le loro strade si sono divise e Arriaga ha scritto “ Le tre sepolture “ diretto e interpretato da Tommy Lee Jones – ottima sceneggiatura che ha ottenuto il premio al Festival di Cannes, ma meno intensa e fantasmagorica delle altre – e Inarritu ha realizzato “ Biutiful “ ( 2010 ) portando il luogo della storia dal suo Messico e gli Stati Uniti alla Spagna odierna.
E’ un ottimo film, girato con sicurezza e abilità, con una splendida fotografia e con location che rendono Barcellona meno riconoscibile e sicuramente non convenzionale e con un cast efficace e solido che rafforza ancora di più la storia. Tuttavia ci ha sorpreso perché, per la prima volta, non ha girato un film corale ( noi ci entusiasmiamo per i film corali ), lo la realizzato con un montaggio lineare e circolare, e ci ha un po’ spiazzati perché ci sembra soltanto un grande esercizio di stile senza innovazioni drammaturgiche e registiche. Alla fine potrebbe sembrare un film che registi come Linch o David Cronenberg avrebbero condotto in modo più originale ed estremo. In fondo quale è la storia ? Sono gli ultimi due mesi di vita di un marginale buono e forse meno concreto delle sue aspirazioni, un angelo sporco dei vicoli delle Ramblas a cui tutto in fondo va male.
Uxbal ( come al solito un bravissimo Bardem ) vive ai margini della società, fa da tramite tra manodopera cinese, venditori di borse contraffatte, un piccolo industrialotto cinese e la polizia corrotta che chiude un occhio come al solito su cantieri e la vendita in strada. Ma lui non si sente – e non è – un piccolo criminale, guadagna un po’ ma aiuta tutti, cerca la mediazione e alla fin fine tutti lo rispettano, se non gli vogliono bene: un angelo caduto. Vive separato dalla moglie Marambra ( che ha problemi di bipolarismo, si ubriaca spesso e per divertirsi un po’ si prostituisce, ma più per disperazione e dissociazione che non per altro ) di cui prova ancora amore ed ha due figli piccoli, Ana e Mateo, che ama profondamente e che accudisce come può avendo poco tempo e in condizioni comunque molto precarie. In più ha una dote speciale – per cui guadagna un po’ – riesce ‘ a sentire ‘ gli ultimi pensieri dei morti, accarezzandoli e toccandoli, e li riferisce ai parenti disperati. In questa realtà disgregata – fatta di appartamenti al limite del vivibile, strade strette e simili a suq e sottoscala dove vivono come schiavi lavoratori cinesi – ma in fondo fatta di affetti e solidarietà, Uxbal si trova con una condanna a morte: è malato di cancro ed ha due mesi di vita.
Qualcuno ritiene questo film un passo in avanti per Inarritu, un superamento di effervescenze narrative e di montaggio, invece noi riteniamo questo film un retrocedere nella ricerca formale di questo autore messicano. Un buon film senza tuttavia innovazione e imprevedibilità, un film crepuscolare, totalizzante e senza concessioni alla minima speranza.
Abbiamo visto “ Another year “ diretto da Mike Leight.
E’ sempre una grande occasione di Cinema quando esce un film di Mike Leight, grandissimo sceneggiatore e regista inglese. Uno di quegli autori che hanno dato vita alla “British Renaissance” del cinema britannico della seconda metà degli anni ottanta ( tanto per citare alcuni autori, Neil Jordan, Stephen Frears, Peter Greenaway, Derek jarman, Sally Potter ). Come ha scritto Emanuela Martini, nel bel libro “ British Renaissance “… Anche se non fu mai un “movimento”, né una “scuola”. Fu un sobbalzo fugace e vitale, fu soprattutto un urlo di rabbia contro un governo, quello conservatore di Margaret Thatcher, che stava distruggendo, in nome del vecchio perbenismo e del nuovo liberismo, la cultura del Paese. Mike Leight si ascrive a pieno titolo e continua ad essere un autore indipendente e di controtendenza che parla degli esclusi, di chi vive la solitudine degli affetti, della difficoltà del vivere, di madre anziane, donne e uomini soli, di adolescenti insicuri e di donne alla ricerca dei genitori: insomma un Ken Loach dei sentimenti, privo di ideologia ma non di solidarietà e affetto verso i deboli. E’ un director che ha realizzato film come “ Belle speranze “ ( 1988, Premio della Critica a Venezia ), “ Naked “ ( 1992, Palma d’oro a Cannes ), “ Segreti e bugie “ ( 1996, vincitore di nuovo a Cannes ), “ Il segreto di Vera Drake “ ( 2004, Leone d’oro a Venezia ). Adesso esce nelle sale “ Another year “ dopo essere passato per il Festival di Cannes ed essere candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale. E per noi il cast al completo del film meriterebbe l’Oscar. Leight ha un pregio di fondo è uno di quegli autori che dal minimalismo dei fatti costruiscono storie forti, concrete e a volte sconvolgenti, dell’apparente normalità si aprono varchi che conducono all’essenza dell’animo umano, alle radici dell’essere umano.
“ Another Year “ è una pellicola apparentemente semplice, come può sembrarlo un brano di Mozart o un libro di Queneau, un esercizio di stile che è un pezzo di profonda bravura e arte del raccontare. La storia è semplicissima, sono quattro momenti di vita della coppia Tom ( Jim Broadbent, bravissimo a calibrare il ruolo di un uomo sereno e soddisfatto che nulla può cambiarlo – ha ottenuto l’Oscar come miglior attore non protagonista con il film ” Iris ” diretto da Richard Eyre ) e Gerry, ( una non meno brava, Ruth Sheen, perfetta nel ruolo di una dottoresssa gentile e granitica fino alla durezza, tipica degli inglesi ), marito e moglie quasi sessantenni ( lei psicologa, lui ingegnere ) che si amano al di là dell’amore, sono due anime gemelle che condividono tutto, amici, relazioni, afflati dell’esistenza, e tra loro non c’è mai un litigio, mai un’incomprensione. Quattro momenti delle quattro stagioni di un anno, in cui appare la leggerezza della nascita, la pesantezza della morte, il raffreddamento di un’amicizia, il vedere fidanzato il figlio; e tutto ciò che succede li trova sempre assieme, sempre uniti e con l’humor giusto per non essere affranti da ciò che accade intorno a loro. Inizia con la Primavera, i due lavorano e tutto procede nel sereno tran tran, tra amici che bevono troppo e che si sentono troppo soli, Mary ( una strepitosa Lesley Manville, la cui interpretazione è da Oscar ) e Ken ( un bravo Peter Wight ), il fratello di Tom, Ronnie, silente e dritto come un fuso e il figlio, un giovanottone ironico e all’apparenza scaltro che va e viene e altri amici ancora. Insomma un mondo buffo e vero, fatto da uomini e donne inseriti nella società ma allo stesso tempo affettivamente ai margini, dei dropout dell’esistenza che non hanno avuto fortuna e che si trascinano in vite dure e sempre con meno speranze di cambiamento, ripetendo errori, facendone degli altri e bevendoci sopra su scala industriale. Eppure non c’è vera tristezza nel racconto, perché tutto è visto con dolcezza, lucidità e senza alcun tipo di moralismo da Leigh, che è oramai maestro di narrazione visiva, di ritmo e di libertà.
Una segnalazione è per il montatore, Jon Gregory, che ha avuto l’abilità del cut a ogni scena che stava lì lì per essere lunga o ripetitiva e l’ha interrotta sempre nel momento giusto.
Abbiamo visto “ In un mondo migliore “ diretto da Susanne Bier.
Susanne Bier è nata nella terra di Boezio di Dacia e Søren Kierkegaard, ha studiato arte all’Università Ebraica di Gerusalemme, quando è diventata regista è entrata nel gruppo di Dogma 95 fondato da Lars von Trier ( Dogma: l’ultima corrente cinematografica mondiale – ormai sciolta – che teorizzava la ‘ purificazione ‘ del Cinema da quello ipercommerciale, e quindi inquadrature con la macchina da presa a mano, niente luci, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora e basso budget – In realtà, la base teorica era una specie di Neorealismo Italiano e Nouvelle Vague in salsa danese. Ha prodotto film capolavoro come “ Festen “, “ Idioti “, “ Mifune “, “ Lovers “, “ Dogville “, tra i vari ). Tutta questa premessa è necessaria per capire il magma filosofico-esistenziale, la base della sua ricerca attraverso l’immagine e “ lo stile “ originario e originale di una delle registe più importanti del panorama cinematografico mondiale. Il suo scavare, indagare sui profitti sentimentali privati, sulla scia di von Trier, di Haneke, di Agnieszka Holland. Nei suoi film ci sono le domande del mondo, quando il mondo si faceva queste domande, che sembrano tracimare dal pensiero kierkegaardiano; riflessioni sull’esistenza del singolo che non si può ricondurre a una unità sistemica sovraindividuale; che bisogna avere coerenza tra parola e azione, che la condizione esistenziale degli esserei umani è segnata dall’angoscia e dal fallimento, che la disperazione nasce da un rapporto profondo dell’uomo con se stesso, che l’angoscia di cui ci si nutre è per la constatazione di essere inadeguati. Una grande regista dal taglio “ minimale “ che tuttavia ha delle imperfezioni evidenti come il mettere “ troppa carne a cuocere “ e consegnarci dei finali a volte troppo elducorati e ottimisti ( è il caso de “ Dopo il matrimonio “, ma anche di quest’ultimo “ In un mondo migliore “ – entrambi cercano il confronto tra il nostro mondo e quello del Terzo mondo e provano ad approfondirli anche individualmente ).
Susanne Bier si è diplomata nel 1987 alla Scuola Nazionale di Cinema di Copenaghen; dopo alcuni videoclip, nel 1991 ha girato il suo primo lungometraggio “Freud Living Home “ ( Nella famiglia ebrea Cohen, i tre figli ritornano per festeggiare il compleanno della madre ). Il suo secondo film è “ Affari di famiglia “ ( 1994 ) ( un ragazzo orfano si mette alla ricerca dei veri genitori scomparsi in Portogallo ). L’anno successivo gira “ Pensione Oskar “ ( all’interno di una coppia si inserisce un circense omosessuale che corteggia il tranquillo padre di famiglia e riesce a conquistarlo facendogli scoprire la bisessualità e rompendo l’idea di famiglia classica ). Poi con la nascita del manifesto Dogma inizia a sperimentare nuove strade, prima con il thriller “ Credo “, poi con “ Den Eneste Ene “. Con il successo ottenuto in patria realizza “ Una volta nella vita “. Inizia a questo punto a seguire fedelmente le regole di Dogma con il film “ Open Hearts “ . E giunge la distribuzione dei suoi film in Europa e nel mondo con “ Non desiderare la donna d’altri “ ( titolo che rimanda a Kieslowski e non solo nel titolo – una storia di due fratelli, uno sbandato e l’altro militare, che dovranno fare i conti con quello che gli prospetta la vita ). E’ giunge nel 2006 “ Dopo il matrimonio “ un film che potrebbe essere definito un melodramma se lo stile del film non si imponesse sulla storia ( Un uomo che vive da anni negli slum indiani per aiutare i bambini diseredati viene chiamato in Danimarca da un mecenate per un eventuale finanziamento e scopre che la moglie del ricco uomo d’affari non è altro che la sua antica donna e che la loro figlia, che deve sposarsi in quei giorni, è sua figlia di cui non sapeva l’esistenza ). Questo film non vince l’Oscar ( è l’anno de “ La vita degli altri “ ) ma le dà la possibilità di girare un film negli Stati Uniti: “ Noi due sconosciuti “ con Halle Berry e Benicio Del Toro ( Una signora borghese, a cui viene ucciso il marito perché ha difeso una donna da un’aggressione deve affrontare il dolore della perdita e decide di accogliere in casa un amico del marito, tossicodipendente. I due instaureranno un rapporto che li migliorerà come persone ). Nel 2010 ha realizzato “ In un mondo migliore “ un film che ha ottenuto al Festival di Roma il Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio e il Premio del pubblico, ed è candidato, per la Danimarca, al premio Oscar come miglior film straniero. E’ una radiografia sulla violenza nel mondo e sul condizionamento che crea nei comportamenti umani sia nei luoghi di sofferenza e sfruttamento sia in quei Paesi che risultano il migliore dei mondi possibili.
Il film inizia in un campo profughi africano, Anton ( un ottimo e misurato Mikael Persbrandt ) è un medico che cura come può le vittime civili di una delle tante guerre tribali; vita faticosa ma che all’uomo soddisfa e soprattutto lo tiene lontano da una moglie che ha tradito e che non lo perdona di quella delusione. Passiamo a Londra, dove si svolge il funerale della madre di Christian – un ragazzino che sembra già un uomo, che trattiene le emozioni dentro di sè e sembra non perdonare il padre e il mondo – ed è il ragazzo che tiene la commemorazione funebre, Con il genitore si trasferisce in Danimarca, a casa della nonna. Nella ennesima scuola in cui va conosce Elias, un coetaneo timido, perseguitato dai compagni più grandi. I due ragazzi diventano amici, ma come è naturale uno comanda e l’altro è sottomesso, insieme diventano complici e si avviano, per situazioni contingenti, verso la violenza e “ il male “ nonostante abbiano dei genitori colti, civili e presenti. Anton – che va e viene dall’Africa – ritorna ma è costretto dalla moglie a vivere in un’altra casa, ma si vedono spesso perché lui ama i suoi due figli e prova a dare degli insegnamenti di vita soprattutto a Elias il più grande. In questa Danimarca civile, pulita e tranquilla, alcuni ragazzi sono dei bulli, i docenti degli inadeguati conformisti privi di personalità, alcuni adulti non riescono ad esprimersi e la violenza entra in scena – in modo un po’ didascalico, ma efficace – con un coatto, e naturalmente stupido meccanico, che schiaffeggia Anton davanti ai ragazzini senza motivo e il dottore non reagisce creando un sommovimento emotivo in Christian e Elias che vorrebbero una reazione. Anton convinto del suo atteggiamento cerca di spiegare ai ragazzi che la violenza non serve e che anzi il suo atteggiamento ha messo in evidenza l’inutilità della sopraffazione. Ma i due ragazzini non sono convinti e decidono di vendicarsi. Ma Anton, ritornato in Africa, si ritrova davanti ad una altra violenza e questa volta in un sussulto di stanchezza non porgerà l’altra guancia.
E’ efficace, oltre che interessante, il discorso che la Bier fa sul dolore e lo fa collocandolo in tutte le fasce d’età, in vari ceti sociali e in luoghi lontani tra loro. Sceglie un taglio coinvolgente senza imporre verità e nel discorso sulla violenza sceglie la semplicità del quotidiano minimo e senza clamori. Tuttavia tematiche così “ alte “ non dovrebbero essere motivate e se lo si vuole per forza non in modo così ‘ buonista ‘ e prevedibile ( la morte di una madre crea rancore e odio – il non saper comunicare crea lacerazioni in famiglia – Per sintesi diciamo che lo stesso tema è stato sviluppato in modo più coerente e forte da Haneke con “ Il nastro Bianco “ o da von Trier con “ Dogville “ senza citare Kubrick e la sua idea sulla violenza ). L’unico clichè che si doveva evitare sono le scene dei bambini africani sorridenti e felici che sembrano una macchia di colore in un film “ in bianco e nero “. Infine, come abbiamo già accennato, il finale anche se coerente è un po’ troppo elducorato. Sembra che dopo l’analisi lucida, quasi clinica, il finle sia alla happy end: e vissero tutti sereni e contenti.
Il cast di attori è perfetto, bravi e convincenti Mikael Persbrandt ( Anton ), Trine Dyrholm, ( la moglie ), Ulrich Thomsen, ( il padre di Christian ) ma soprattutto – in quanto al loro primo film, i ragazzini Markus Rygaard e William Johnk Nielsen.