Recensione: Il Padrino

Anni ’40, Don Vito Corleone (Marlon Brando) boss della mafia italo-americana, muore, anche il suo naturale successore, il figlio  Sonny (James Caan) muore in un’imboscata ordita ai suoi danni da un clan rivale, così toccherà a Michael (Al Pacino), figlio arruolatosi nell’esercito e per nulla intenzionato a seguire le orme del padre, prendere le redini della Famiglia.

E’ il 1972, Mario Puzo e il regista Francis Ford Coppola realizzano Il Padrino, che sarà, dopo il classico Nemico pubblico (1931) con James Cagney , il capostipite del gangster-movie, che figlierà sequel, e altri classici come Quei bravi ragazzi di  Martin Scorsese e Scarface di Brian De palma.

La tragedia come stile di narrazione, una serie di personaggi dalle caratteristiche memorabili, un Marlon Brando epocale, siamo di fronte ad una leggenda che contaminerà i decenni successivi rimanendo un classico che non sente assolutamente lo scorrere degli anni.

La mafia come dinastia familiare dagli ambigui ma fortissimi valori, l’omicidio come quotidiano, una apparente e vantata legalità, vedi L’ambiguo consigliere/avvocato interpretato da Robert Duvall, anni luce dalla mafia odierna, quella truce e senza regole di Gomorra, o tramutata in mera macchina di soldi che fagocita tutto e tutti, senza fermarsi neanche davanti alla sacralità del’infanzia.

Sara’ l’elemento estraneo droga e il suo inserirsi nella società mafiosa a distruggerne dall’interno i valori e disgregarne le solide fondamenta, che il rassegnato Don Vito cerca di allontanare sentendone il puzzo premonitore, la droga come commercio e investimento sarà l’inizio della fine.

Il cast è stellare, da Al Pacino a Marlon Brando, da un incontenibile James Caan ad un toccante John Cazale, il suo Fredo è il maggiore dei fratelli, ma il piu’ terrorizzato e bisognoso d’affetto, uno dei personaggi più belli e tragici di questo film.

Il Padrino ha una sequela di battute e scene che traformano la pellicola in un affresco dall’ambigua epicità, che spaccò la critica dell’epoca spaventata dall’ammirazione che trasudava dai fotogrammi della pellicola per un mondo che faceva dell’omicidio e dell’illegalità il suo credo.

Ma se si guarda bene in fondo, tutti, e dico tutti i personaggi sono venati di una tragicità che è ben lontana da una voglia di esaltazione, Il padrino è come una tragedia shakespeariana che è ben lungi dall’invitare all’emulazione o ad una ambigua accettazione dei ruoli crimnali come conseguenza e bisogno della società, ma invita alla riflessione e al compatimento di scelte obbligate, di morti accettate per rassegnazione, di vite distrutte dalla follia di regole insensate, l’onore che ogni tanto emerge per scusare e giustificare la mostruosità di atti indegni è affogato nel sangue e dalla crudeltà che ne consegue.

Non c’è nessuna esaltazione del male ne Il padrino, ma la lucida testimonianza di un’epoca che finisce e di regole del gioco che cambiano, ineluttabilmente, come succede sempre quando il futuro, terrificante e malato che sia, bussa alla porta.