Il volo della fenice, recensione

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Un gruppo di ricercatori petroliferi in  Mongolia ha bisogno di soccorso, ad occuparsi della missione di recupero il pilota Frank Town (Dennis Quaid) che con il suo cargo dovra recuperarli  e portarli in salvo.

La missione sembra di routine, insomma Town ne ha affrontate a decine nella sua lunga carriera, ma stavolta come spesso accade l’imprevisto è dietro l’angolo, una tempesta di sabbia investe l’aereo che incapace di prendere quota finisce per  schiantarsi in pieno deserto.

Dopo qualche fisiologico momanto di panico il gruppo si rende conto che i soccorsi potrebbero non trovarli in tempo, ci si organzizza per affrontare le afose giornate e le fredde nottate offerte dall’inospitale deserto del Gobi, poi qualcuno  ha un’idea, al contempo folle e geniale, utilizzare le parti della carcassa del cargo per costruire un rudimentale velivolo con cui  raggiungere una zona abitata

Il gruppo sembra alquanto scettico, ma visto il ritardo dei soccorsi e la scarsità di acqua e viveri il velivolo di fortuna viene messo in cantiere, quella sarà l’unica speranza di salvezza per il manipolo di superstititi

Il volo della fenice è un dignitoso remake di un classico avventuroso datato 1965, diretto da Robert Aldrich e con un memorabile James stewart, stavolta alla regia John Moore che ci ha regalato l’ottimo action Behind the enemy lines e la discreta trasposizione cinematografica del videogame Max Payne.

Il cast vanta la solidità di un Dennis Quaid sempre all’altezza della situazione, la recitazione nevrotica del bravo Giovanni Ribisi e nientemeno che l’eperienza del Dr. House televisivo Hugh Laurie finalmente senza bastone e caratteraccio d’ordinanza.

Nonostante un solido predecessore che potrebbe creare scomodi paragoni e alcuni sconfinamenti nell’action da videoclip tipici dello stile del regista, basta dare un occhiata al suo remake Omen-Il presagio, Il volo della fenice rimane un solido dramma avventuroso, un genere che Hollywood affronta sempre con la necessaria esperienza.