Recensione: Max Payne

Max Payne (Mark Wahlberg) è un agente della polizia di New York, ora alla DEA, che investiga sui casi irrisolti con un occhio di riguardo a quelli collegati alla droga: all’uomo, qualche anno prima, è stata uccisa la famiglia da un gruppo di drogati e lui, desideroso di vendetta, ha deciso di ritrovarli a tutti i costi.

Un giorno Payne si imbatte in una nuova droga, la Valchiria, capace di far sentire invincibile chi l’assume, che come controindicazione crea spaventose allucinazioni e decide di infiltrarsi nell’organizzazione per pestare i piedi al boss Lupino (Amaury Nolasco)

Deciso a fare luce sul caso, l’agente finirà per essere ricercato sia dalla malavita organizzata, che non apprezza il suo interessamento, sia dai suoi colleghi, che dubiteranno della sua onesta dopo che gli indizi di due omicidi, quello di una bella ragazza russa Natasha Sax (Olga Kurylkenko) e quello del suo compagno di squadra, Alex Balder (Donald Logue) portano dritto a lui.

Max Payne è film d’azione diretto da John Moore, tratto dall’omonimo videogame, dalla storia abbastanza piatta e il finale prevedibile, che emoziona solo in parte (le allucinazioni e gli effetti speciali) e non soddisfa appieno le aspettative dei fan del gioco.

Nulla da eccepire sull’ambientazione del film, veramente affascinante, e sul soggetto, un antieroe disposto a tutto pur di veder marcire all’inferno gli assassini dei propri cari, alle prese con una droga allucinogena, ma da videogiocatore, non posso ritenermi soddisfatto della trasposizione di Moore: nel film, non potendo interagire, bisognerebbe approfondire un po’ la storia (a tratti poco credibile in quanto il protagonista non è un supereroe, ma ha capacità sovraumane) e i personaggi, contestualizzarli, dargli un senso, invece, a parte un lento Wahlberg, che per lo meno sembra avere un’anima, gli altri sembrano o dei corpi senz’anima (carne da macello come Natasha Sax) o degli squilibrati lunatici (come la sorella di Natasha, Mona, interpretata da Mila Kunis), che non sanno esattamente cosa vogliono.

Concludendo: il film, che dopo i titoli di coda lascia aperto ad un sequel, si salva solo per la fotografia, la scenografia (in entrambi i casi debitori di Sin City) e alcuni effetti di post produzione, perché non rende omaggio a sufficienza al videogame da cui è tratto (quasi inesistenti le caratteristica della visuale soggettiva e del bullet-time, poco caratterizzato il personaggio di Max) e ricalca troppo altre storie del genere.