Alice in Wonderland, recensione

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Alice Kingsley (Mia Wasikowska) è un ragazza dell’altà società sognatrice e anticonvezionale, che non ama formalità ed imposizioni, cosi dopo aver perduto l’amato padre si ritrova costretta ad una pubblica proposta di matrimonio, l’rritante promesso sposo sarà la goccia che fa traboccare il vaso e Alice fuggirà dalla sua vita che non riesce a controllare, rifugiandosi in un mondo fantastico, non privo di pericoli.

Seguendo un coniglio all’interno di una profondissima tana, Alice si ritroverà in un mondo folle e colmo di bizzarri personaggi e magiche creature, che viste le fattezze sembrano partoriti da uno dei suoi sogni, ma ben presto la ragazza capirà che il mondo in cui i trova non solo è reale, ma anche alquanto familiare.

Infatti il Cappellaio matto (Johnny Deep) e una schiera di ribelli vorrebbero che Alice torni a confrontarsi come un tempo con la perfida Regina rossa (Helena Bonham Carter), spodestandola dal trono che ha usurpato alla sorella, l’algida Regina bianca (Anne Hathaway), riportando la pace e la serenità nel Paese delle meraviglie.

Qualche tempo fa Burton in un’intervista ha parlato del classico Disney definendolo frammentato e senza un vera trama, aggiungendo che non l’aveva catturato  emotivamente, allora ci viene il dubbio che il percorso creativo e le motivazioni che hanno portato Burton nel Paese delle meraviglie siano purtroppo le medesime che hanno portato Steven Spielberg sull’Isola che non c’è, semplici suggestioni e reminiscenze.

Anche Spielberg a suo tempo con Peter Pan non sembrò particolarmente coinvolto, ne un grande amante della fiaba originale o del classico Disney, ammettendolo candidamente in più di un’intervista, e anche in quel caso il suo film di certo non strabiliò, anzi la sua rivisitazione con un salto in avanti degli eventi, come nel caso di Burton, ci lasciò molto perplessi tanto quanto un Robin Williams in calzamaglia e un’ambientazione posticcia che faceva rimpinagere ad ogni sequenza il cartoon della Disney.

Burton ha sicuramente nella sua impronta visiva e nel suo imaginario alcune delle suggestioni dei romanzi di Carroll, e anche se non potevamo in alcun modo pensare a qualcuno di più adatto per riportare su schermo un classico della letteratura fantastica, nel film di Burton non si percepisce mai un empatia per i personaggi, ne tantomeno il bisogno di dargli un’impronta riconoscibile, quell’aria burtoniana che si respirava ad esempio ne La fabbrica di cioccolato, il genuino e quasi infantile entusiasmo di un piccolo lettore cresciuto, in questo film non si percepiscono quasi mai.

Cosi ci ritroviamo di fronte al primo lavoro veramente convenzionale e per nulla riconoscibile del regista, mai come in questo caso il film ha tutto l’aspetto di un compito svolto con l’accuratezza di un gran mestierante, senza l’impronta di follia e bizzarro e il bisogno di raccontare a modo suo un mondo amato, visitato nell’infanzia e metabolizzato nella piena maturità artistica, vedi Il mistero di Sleepy Hollow piuttosto che Edward mani di forbice.

150 anni, tanto ha il racconto originale, e bisogna ammetterlo in questa versione si sentono proprio tutti, se il film di Burton visivamente non tradisce lo spessore tecnologico dell’operazione, non strabiliando però come avrebbe potuto e dovuto, per dovere di cronaca segnaliamo anche un 3D assolutamente superfluo, i dialoghi restano sin troppo fedeli all’originale generando un involontario cortocircuito con la punta di follia posticcia dei personaggi messi in scena dal regista, così dopo l’ennesimo Ciciarampa, un paio di Ciciacià e un Grafobrancio di troppo, a cui si aggiunge un Johnny Depp mai così sopra le righe e poco convincente, si arriva ad un finale con la povera Alice/Mia Wasikowska che imita Giovanna d’Arco e mostra tutti i sintomi da sovraesposizione da Green screen.

Peccato in Alice in Wonderland c’è un Burton latitante imbrigliato in un soffocante bavaglio tecnologico che stavolta ne limita palesemente le capacità espressive, anche a causa di una sceneggiatura troppo rigida, quasi formale. Ci volevano meno legacci  e remore nell’affrontare la tana del Bianconiglio come fece a suo tempo Jim Henson con Labirynth, e recentemente Guillermo del Toro con Il labirinto del fauno, ma comprendiamo anche che il formato family-movie imposto dalla Disney, deve aver inciso non poco sul risultato finale.