Recensione: Palermo Shooting

La vita del fotografo può essere stressante, può essere tremenda. Soprattutto se è il successo a prendere il sopravvento. Il telefono squilla come se si fosse incantato, ma al di là della comunicazione c’è sempre qualcuno che vuole qualcosa, qualcuno che ha qualcosa da dire.

La carriera prende il sopravvento, il mondo gestisce la nostra vita, e noi non siamo più padroni di quello di cui crediamo essere padroni. La speranza è flebile, perchè a volte la spirale sembra averci risucchiato così a fondo che non si riesce a concepire alcunchè di diverso.

Finn è un fotografo, e il suo lavoro è apprezzato a livello internazionale. Finn è il pretesto che Wim Wenders usa come incipit per partire da una Germania fotografata in modo magistrale, forse autobiografico, ma solo per prepararci a un salto in una location dai toni opposti, ma che portano con sè il tratto caratteristico di questo modo di vedere le cose.

La musica è per Finn l’unica compagnia: le persone sono ormai sinonimo di stress e di impegni presi e da mantenere; nemmeno il sonno è più un rifugio, e nemmeno un’opportunità. Gli incubi dominano infatti le sue notti, spingendolo a non voler dormire più.

Il suo unico amico è il lettore mp3, che macina, musica in continuazione. Finn non ascolta propriamente quello che il lettore spara nelle sue orecchie. Il lettore “rilascia” musica come se fosse una flebo in grado di dispensare qualcosa che giova al suo organismo come un antidolorifico.

Arriva il punto di rottura: guida la sua auto, e in un momento la sua vita gli passa davanti: rischia la vita, e decide di cambiare tutto. Cambia la scenografia, perchè potrebbe essere il punto di partenza per un nuovo inizio.

Dalla Germania, steretipicamente cupa, vola a Palermo con la scusa di un servizio fotografico con Milla Jovovich. Vuole solo ricominciare, tutto è un pretesto, tutto è una scusa. Qualcosa però gli sta addosso, un’ossessione, una paura atavica riemersa da qualche luogo recondito del suo essere, forse stimolata dalla vita schifosa vissuta negli utlimi tempi.

Flavia invece è una restauratrice. Casualmente sta lavorando a un affresco del cinquecento, la cui raffigurazione appare come una macabra casualità nella vita di Finn: il dipinto rappresenta infatti il trionfo della Morte.

Il viaggio di Finn diventa quindi una ricerca in regioni ormai negate alla sua diretta percezione, momenti di inquietudine che racchiudono espressioni del suo stesso essere che si manifesta, esteriorizzato, senza annunciare in modo esplicito se si tratta di un campanello di allarme o di qualcosa di diverso.

Dove c’è la morte, però, c’è anche l’amore, come se fopssero realmente due facce della stessa medaglia. L’amore nuovo, elettrizzante, l’amore che strappa i capelli e che conferisce nuova vita e nuovo vigore alle persone.

Tutto questo è raccontato alla Wim Wenders, quindi come minimo rimarrete con lo sguardo incollato alla splendida fotografia, ma il film riserva ben altre sorprese.

UN cast notevole comprendente Dennis Hopper, Giovanna Mezzogiorno, Inga Busch, Campino, Sebastian Blomberg, Francesco Guzzo, Wolfgang Michael, Harry Blain, Gerhard Gutberlet, Axel Sichrovsky, Patti Smith, Lou Reed, Milla Jovovich, Giovanni Sollima, Alessandro Dieli.

Ununa ota particolare va al protagonista, Campino. Il suo vero nome è Andreas Frege, nome legato al gruppo Die Toten Hosen , il gruppo tedesco più famoso al mondo, fondato a Dusseldorf insieme a Andreas von Holst.