Inception, recensione

Dom Cobb (Leonardo DiCaprio) è un abile estrattore di sogni, la sua abilità è creare architetture oniriche nelle quali inscenare dei veri e propri furti all’insaputa del sognatore di turno, rubare idee e segreti direttamente dal subconscio nel momento in cui il soggetto scelto abbassa le proprie difese.

Stavolta Cobb non dovrà affrontare il solito furto su commissione da spionaggio industriale, un magnate giapponese gli chiederà di instillare un’idea nel subconscio di un giovane che sta per diventare unico erede di una potente multinazionale, le cui azioni una volta acquisiti i diritti ereditari dal padre morente potrebbero cambiare le sorti dell’economia globale.

Cobb accetterà il lavoro in cambio della possibilità di tornare in patria dove ha lasciato i suoi figli dopo una fuga e l’esilio, conseguenza dell’accusa di aver ucciso la moglie. Ad aiutare Cobb in questa operazione ad alto rischio un team di specialisti, ognuno con specifiche capacità indispensabili per penetrare nel subconscio prescelto ed allestire una messinscena credibile.

Christopher Nolan debutta nel suo primo script in solitaria, in tutti i suoi lavori il regista ha sempre lavorato in tamdem con il fratello Jonathan, tranne che nel dittico dedicato al Cavaliere oscuro dove è stato supportato dal veterano David S. Goyer e nel thriller Insomnia.

Per la sua prima prova Nolan sceglie un soggetto davvero originale e soprattutto impegnativo, l’architettura dei sogni e il subconscio come universo parallelo, i sogni che diventano un palcoscenico su cui allestire dei furti o come nel caso del film l’innesto di un’idea.

Nolan si lancia in un incipit visivamente notevole, il regista utilizza gli efficaci effetti visivi in maniera fotorealistica miscelandovi il cosiddetto filone degli heist-movie, i film in cui si allestisce una squadra per pianificare e portare a termine un furto/truffa d’alto profilo, vedi la trilogia di Ocean’s eleven o The Italian Job tanto per citare un paio di titoli, aggiungendovi elementi stranianti come l’utilizzo di diversi piani di realtà che alla fine finiscono per sovrapporsi, come accadeva in pellicole come matrix, Il pasto nudo ed Existenz, utilizzando una particolare attenzione allo spessore dei concetti messi in campo.

Senza dubbio Inception aveva in se tutti gli elementi per trasformarsi in un capolavoro, il problema è che Nolan senza un supporto o perlomeno un minimo di controllo lascia che idee, nozioni e teorie cavalchino a ruota libera tra continue e prolisse spiegazioni prima, durante e dopo quel che accade su schermo invece di lasciare che a parlare siano le immagini e le suggestioni come accadeva in Matrix, che con il film di Nolan condivide la creazione di una realtà parallela in cui  protagonisti e spettatore si dovranno orientare conoscendone appieno le regole.

Così tra una sparatoria ed un salto da un piano all’altro del subconscio di turno, i dialoghi si fanno ridondanti e oltremodo pretenziosi e Nolan rivela un bisogno tutta’altro che inconscio di istruire lo spettatore, rallentando inesorabilmente il ritmo della narrazione ed eccedendo nel concetto di sogno nel sogno arrivando a toccare livelli di comicità involontaria nelle sequenze della lotta a gravità zero e nell’utilizzo dello slow-motion.

Il film di Nolan se da una parte mostra tutto il potenziale immaginifico di un soggetto che meritava di più, dall’altra palesa in corsa una perdita di lucidità e sobrietà di uno script tanto ricco e ambizioso quanto pretenzioso senza un solido supporto in fase di scrittura che ne smussi gli eccessi creativi, un film dal potenziale mostruoso e dalla resa non pienamente all’altezza dei concetti messi in campo, pellicole con meno sfarzo, vedi Dark city di Proyas piuttosto che Ghost in the shell ed Avalon di Mamoru Oshii hanno, su piani narrativi diversi, trasmesso in maniera pregnante e altrettanto visionaria il medesimo concetto.