The ring & Co.: storie di fantasmi orientali-Parte seconda

La Corea, in questi ultimi anni si è fatta portatrice di una ventata di novità nel ristagnante panorama horror internazionale, i suoi autori sono fautori di un cinema elegante e cerebrale, ma che utilizza con efficacia visiva ed emotiva paure che provengono dalla paranoia e dalla psiche distorta.

Che si tratti di fantasmi più convenzionali, o di fantasmi figli di traumi e fobie inconsce, stavolta lo splatter ed il gore, sangue e violenza grafica, ben si accompagnano a questo cinema che è meno rarefatto di quello giapponese, e meno astratto e più fruibile di quanto a prima vista appaia, un cinema fatto di orrori tangibili partoriti dalla mente, ma decisamente ed efficacemente molto realistici.

La paura instillata e genitrice delle leggende metropolitane, è questo il tema portante di pellicole come Koma, un serial killer, predatore urbano a caccia di organi, e agghiaccianti storie di clandestine e fugagi asportazioni di reni in stanze d’albergo, la paura è tangibile e dietro ad ogni angolo, più realistica, e  per questo assolutamente terrificante.

Quindi a parte oggetti infestati e bambole possedute, citiamo gli ottimi The doll master e Gabal-The Wig, il cinema horror coreano punta più che altro sul terrore che ci abita e che si nasconde nel nostro quotidiano, tra gli amici, i familiari, o i semplici sconosciuti incrociati in un  bar, il buio che non si può liquidare con lo scetticismo di un tanto non è possibile, un buio che in pellicole come Audition, viene letteralmente vomitato da una tranquilla e solo all’apparenza mite ragazza, che cova un mostro nascosto in profondità, mostro che nasconde in un metaforico sacco di tela che popola la sua immaginazione, un semplice, rumoroso ed inquietante sacco che contiene tutte le nostre e le sue paure, che verranno presto liberate nell’agghiacciante e insostenibile finale del film.

Proprio in merito a questa deriva verso lo psicho-thriller vorrei consigliare la visione di due opere che rappresentano la summa di quanto detto finora, Two sisters, con i suoi protagonisti persi in terrificanti visioni figlie di un insostenibile trauma mai del tutto elaborato, pellicola arricchita da una costruzione narrativa labirintica ed inquietante, ed il thriller-horror Black house, dove nel modo più convenzionale, si rilegge la figura del serial-killer da una prospettiva rigorosamente scientifica, tralasciando la violenza ben celata per tutto il film e liberandola, d’un sol colpo, nel raggelante e  disturbante finale che si svolge in quella che chiameremo la camera dei giochi della mite e mostruosa, e non ci riferiamo al suo aspetto fisico, protagonista del film.

Il cinema horror coreano è ricco di titoli e vanta una commistione di generi che potrebbe spiazzare lo spettatore meno preparato, molte volte cercare di inserire questo o quel film in un genere ben preciso  risulta difficile, come difficile separare l’horror fantastico della ghost-story dall’horror piu’ cerebrale e contaminato da una connotazione thriller, a favore di una narrazione più radicata nella realtà.

Quindi il discorso sarebbe lungo e disseminato di pellicole ibride difficilmente collocabili, ma con i titoli poc’anzi elencati si può cominciare ad esplorare una cinematografia, quella coreana, complessa, culturalmente molto lontana, ma che potrebbe sorprendervi non poco con la sua coinvolgente freschezza visiva.