La banda degli onesti, recensione

Antonio Buonocore (Totò) è il portinaio di uno stabile che un bel giorno si ritrova per le mani quello che sembra essere un inaspettato colpo di fortuna, nonchè la svolta della vita, alcuni clichè sottratti alla Zecca dello Stato e la carta filigranata per stampare delle banconote.

Antonio viene in possesso dello scottante materiale grazie ad una confessione fattagli da un anziano inquilino, che in punto di morte gli rivela dove ha nascosto filigrana e clichè di cui Antonio si appropria dopo la morte dell’uomo.

L’idea è molto semplice, almeno sulla carta, coinvolgere altri due compari nell’operazione, il tipografo Giuseppe Lo Turco (Peppino De Filippo), lui fornirà i macchinari necessari a stampare fisicamente le banconote e il pittore Cardone (Giacomo Furia), un artista della tela esperto di colori e vernici.

Antonio sa che i due, indebitati come lui fino al collo, non avranno altra scelta che accettare la proposta. Così i tre si riuniscono nottetempo e danno il vila alla produzione di banconote da diecimila lire, ma il terzetto dopo l’esaltazione iniziale andrà nel panico quando verrà a sapere, dal figlio finanziere di Antonio, che le autorità sono sulle loro tracce.

La banda degli onesti insieme a Totò Peppino e la malafemmina, rappresentano forse i due film più memorabili dell’accoppiata Totò/De Filippo, la trama e le situazioni sono decisamente esilaranti e ricche di spunti ironici su cui l’istrionismo complementare dei due comici napoletani diventa a tratti davvero irresistibile.

In questa caso è il regista Camillo Mastrocinque, coadiuvato da una frizzante sceneggiatura della coppia d’oro Age & Scarpelli, a fornire materiale per una serie infinita di gag e tormentoni da antologia. A fare da cornice ai due un cast di comprimari di grande talento ed esperienza, come l’attore casertano Giacomo Furia, cresciuto con il teatro di Eduardo De Filippo, e con il suo inconfondibile timbro di voce, l’onnipresente Memmo Carotenuto.