Cella 211, recensione

la-locandina-di-cella-211-146820

Juan Olivier (Alberto Amman) sta per affrontare il suo nuovo impiego di guardia cerceraria in un penitenziario di massima sicurezza, e tanto per ambientarsi  e capire come funzionano le cose si presenta al lavoro con un giorno di anticipo.

La visita di Olivier purtroppo sarà bruscamente interrotta da un incidente che ne causerà il ferimento, seguito da una violenta rivolta dei detunuti capeggiati da uno dei criminali più pericolosi della prigione, il violento e carismatico Malamadre (Luis Tosar).

Olivier invece di essere portato in infermeria verrà lasciato privo di conoscenza in una delle celle, in cui si risveglierà da solo,in trappola e con il carcere ormai in mano ai detenuti, e vista la situazione per  evitare di essere preso in ostaggio, o peggio linciato si fingerà un detenuto unendosi ai rivoltosi.

Dopo l’ottimo Il profeta del francese Jacques Audiard ecco un altro prison-movie tutto europeo, diretto dallo spagnolo Daniel Monzon e basato sul romanzo Celda 211 di Francisco Perez Gandul. Una pellicola che dimostra come il cinema di genere spagnolo sia in piena evoluzione, dopo i fasti dell’horror iberico che ha lanciato talenti come Amenabar, Plaza e Balaguerò.

Il film di Monzon sfoggia una rigorosa messinscena e un paio di protagonisti d’alto profilo come il bravo Alberto Amman nel ruolo di Olivier, e il sorprendente Luis Tosar, già comparso nei panni di uno spietato criminale nel remake Miami Vice di Michael Mann. Il suo Malamadre regge la scena anche nei pochi momenti in cui il film perde qualche colpo, e si lascia inevitabilmente tentare da una formalità visiva tipica del genere.

Cella 211 è un film vigoroso e a tratti davvero coinvolgente, che denuncia le debolezze di un sistema carcerario ancora incapace di sostenere una credibile ed efficace forma di recupero, non dimenticando lungo la strada di chiamare in causa le istituzioni latitanti e la piaga del terrorismo.

Il film di Monzon si dimostra all’altezza della fama che lo ha preceduto e dei premi che ne hanno segnato il percorso distributivo, un film violento ma mai compiaciuto, intelligente e puntuale nel sottolineare contenuti ed intenti di denuncia, senza per questo rinunciare allo spettacolo e ad una corposa dose di tensione, che lo trasforma in un riuscito ibrido, capace di passare con nonchalance dal cinema di denuncia a quello di genere, senza dimenticare mai l’intrattenimento puro.