Arctic tale, recensione

Nanu e Seela fanno parte della fauna che popola i ghiacci del circolo polare artico, la prima è un cucciolo di orso polare, la seconda rarissima prole di una mamma-tricheco che sembra generi cuccioli molto di rado.

Assisteremo alla crescita e alla lotta per la sopravvivenza di entrambi i cuccioli, protetti dalle loro madri dai predatori che nei primi anni di vita tenteranno di divorarle, predatore su tutti proprio l’orso polare maschio che se non disdegna di attaccare inermi cuccioli di tricheco, non lesina aggressioni, quando affamato a piccoli della sua stessa specie.

Durante la crescita di Nanu e Seela scopriremo quanto nel loro percorso verso l’età adulta sia importante la famiglia, per Nanu sarà la madre a procacciare il cibo per lei ed il fratello quando ancora entrambi non ne avranno la capacità, ma sarà la stessa genitrice ad allontanarla dopo la morte del fratello per garantire la sopravvivenza di entrambe, messa a rischio dal repentino cambiamento delle condizioni climatiche in costante evoluzione.

Per Seela invece oltre all’iperprotettiva madre, sarà il branco a mettere in atto tutto il necessario affinchè la sua vita prosegua e il cucciolo di tricheco possa sviluppare mole, istinto e difese naturali tali da permettergli un minimo sindacale di sopravvivenza anche lontano dalla protezione della madre e del branco.

Nel 2007, due anni prima dell’ incursione su grande schermo del poetico L’incredibile viaggio della tartaruga, esce questo documentario prodotto per il National Geographic e diretto a quattro mani da Adam Ravetch e Sarah Robertson che in ben quindici anni hanno raccolto oltre 800 ore di girato che includevano appunto la storia di due famiglie, una di orsi polari l’altra di trichechi, rispettivamente predatori e prede nell’ordine naturale delle cose, ma che come scopriremo nel documentario hanno in comune come molte specie più di ciò che appare.

Arctic tale è quelo che sarebbe stato L’incredibile viaggio della tartaruga senza l’ausilio della narrazione cinematografica e di alcuni elementi come il montaggio e l’utilizzo della musica, questo non vuol dire che il lavoro di Adam Ravetch e Sarah Robertson non abbia le medesime qualità, è solo che mostra l’altra faccia del documentario, quella più classica, meno disposta ad essere filtrata dal linguaggio cinematografico e per questo più schietta e a volte più dura nel mostrare il regno animale nelle sue molteplici sfaccettature.

I due documentaristi americani non rinunciano però a dare nomi ai loro protagonisti e ad una voce fuori campo narrante in questo caso meno standardizzata del consueto, in originale la voce narrante è quella dell’attrice Queen Latifah, capace di regalare al contesto un surplus di appeal, che purtroppo con il doppiaggio italiano di Antonella Giannini anche se di ottima qualità, va in parte perduto.

Note di produzione: nel film si pone l’accento sullo sconvolgimento climatico in atto causato dal surriscaldamento globale, prima dei titoli di coda i registi ricordano che se la tendenza sarà la medesima di questi ultimi anni entro l’estate del 2040 i ghiacci artici potrebbero sparire per sempre, in concomitanza con l’uscita della pellicola è stato realizzato anche un videogame per consolle, il produttore Disney Adam Leipzig è lo stesso che ha supervisionato la versione americana de La marcia dei pinguini e tra gli autori c’è Linda Woolverton che ha curato gli script di classici Disney come Il re leone e La bella e la bestia oltre all’Alice in wonderland di Tim Burton.