Recensione: In the Name of the King

Il fattore (Jason Statham) è un orfano tirato su da un intero villaggio e diventato un ottimo contadino ed un felice padre di famiglia, la sua vita scorre tranquilla tra lezioni di vita impartite al figlio e il forte amore che lo lega alla sua compagna Solan (Claire Forlani)

Quando il suo villaggio viene attaccato dai bestiali Krug, un esercito di mostruose creature comandate dal malvagio stregone Gallian (Ray Liotta), suo figlio viene ucciso e sua moglie rapita. Il Fattore con suo cognato Bastian (Will Sanderson) ed il suo mentore e amico Norick (Ron Perlman) decide di rifiutare l’arruolamento nell’esercito del re Konreid (Burt Reynolds), che si sta organizzando per affrontare la minaccia, per salvare sua moglie e vendicare la morte di suo figlio.

Ma il passato è pronto a richiamarlo al suo dovere, quando il mago di corte Merick (John Rhys.-Davies) gli rivela le sue nobili origini e che morto il re sarà proprio lui a dover guidare l’esercito in battaglia contro lo stregone Gallian e le sue orde di Krug.

Certo che massacrare il regista Uwe Boll è ormai diventato uno sport nazionale, ma sembra ormai come sparare sulla Croce Rossa, perchè sono evidenti le carenze di questo regista che insiste nel voler trasporre su pellicola i videogames più famosi ed amati per poi subire le funeste ire degli appassionati di tutto il mondo in cerca di un colpevole da linciare.

Dopo aver massacrato il progenitore degli odierni survival-horror, il cult Alone in the dark e lo shoot’em up horror più famoso di sempre, l’orrorifico House of the dead, eccolo mettere le mani su un amatissimo gioco di ruolo per computer, Dungeon Siege, questa volta diciamo con effetti meno devastanti del solito.

Guardando attentamente questo In the name of the King, si riesce a capire perchè Boll continui a lavorare, lui più che un regista è un ottimizzatore di budget, cioè riesce ad utilizzare budget miserrimi, che altri registi riterrebbero inadeguati, puntando a girare già dal principio prodotti destinati al mercato home-video e dal fulmineo passaggio nelle sale.

Quindi Boll sfrutta un corposo uso di computer grafica che abbatte notevolmente i costi, un make-up dozzinale, notate come per tutto il film si eviti accuratamente di fare primi piani ai mostruosi Krug, una serie di combattimenti coreografati da un esperto made in Hong Kong e due o tre location povere e poco impegnative, ma molto suggestive. Aggiungiamoci un cast notevole, pagato con cachet stratosferici e su questo siamo pronti a scommetterci e il perfetto film da noleggio è sfornato.

In the Name of the King rimane comunque una lezione su come banalizzare il genere fantasy nel peggiore dei modi, ma come già era successo con l’altro videogame Bloodrayne, Boll sembra a proprio agio con il genere fantastico, che sembra costringerlo ad evitare le baracconate ultrakitsch che lo contaddistinguono, in favore di una narrazione ingenua, ma soprattutto grazie ad un carismatico cast, il film nel complesso risulta abbastanza godibile.

In conclusione sconsigliato assolutamente per la visione in sala, nonostante ad oggi questo sia il miglior film di Uwe Boll insieme all’horror Seed ancora inedito in Italia e ve lo dice uno che se li è sorbiti tutti, quindi siamo di fronte sicuramente ad un discreto investimento per un noleggio e una tranquilla serata casalinga, ma niente di più, Ah dimenticavo! Astenersi i fan del videogame omonimo.