Una sconfinata giovinezza, recensione in anteprima

Lino (Fabrizio Bentivoglio) e Chicca (Francesca Neri) sono una bella coppia professionalmente realizzata, lui è un affermato giornalista sportivo, lei una docente universitaria, i due non hanno figli, ma questo elemento causa di molte separazioni e crisi matrimoniali non ha incrinato un’armonia che con gli anni è andata invece consolidandosi, cercando l’uno nell’altra le inevitabili mancanze emotive che nel corso di oltre vent’anni di matrimonio si sono via via materializzate.

A incrinare l’equilibrio raggiunto e l’armonia conquistata in anni di convivenza arriva la malattia, imprevedibile e spietata solo come l’Alzheimer riesce ad essere, dopo alcuni sintomi che si presentano come un campanello d’allarme che anticipa l’inevitabile, la memoria di Lino viene lentamente erosa sino a che per lui comincia una lenta e irreversibile regressione verso un oblio che presto ne cancellerà ogni ricordo.

Chicca diventerà ancora una volta per il marito un punto di riferimento, una memoria condivisa da cui poter attingere ricordi di un amore forte che fungerà da legame anche quando muterà in una sorta di cordone ombelicale che trasformerà la compagna in figura materna e i ricordi d’infanzia nell’unica vita vissuta.

Difficile e irto di ostacoli il tema scelto da Pupi Avati per il suo nuovo film, l’amarcord che contraddistingue molta della sua produzione diventa materiale da melò, una coraggiosa e non indolore svolta narrativa che perde in leggerezza per abbracciare una dolorosa storia d’amore e un registro drammatico che Avati mette in scena con qualche eccesso di formalità, che se serve a mettere in risalto il talento dei due protagonisti, alla lunga perde in genuinità.

Una sconfinata giovinezza crea qualche perplessità anche a livello di confezione, sembra che si sia optato per un prodotto a mezzavia tra un’opera di fiction televisiva d’alto profilo con tutti i manierismi tipici della narrazione da piccolo schermo e la poetica d’ampio respiro che contraddistingue molto cinema d’autore nostrano che a tratti squarcia il velo per mostrarci stralci del miglior Avati, quello dei ricordi rielaborati dalla nostalgia canaglia e delle molteplici suggestioni del cinema di genere che il regista conosce e utilizza sempre a piccole, ma incisive dosi.