Il mio nome è Khan, recensione in anteprima

Rizwan Khan (Sha Ruhk Khan) è un bambino indiano di religione musulmana affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo che viene bilanciata da una sorprendente capacità nell’intuire in che modo funzionano le cose riuscendo così a riparare particamente qualsiasi cosa, a questo si aggiunge un quoziente intellettivo davvero notevole che la madre nonostante le difficoltà economiche cercherà di sviluppare con l’aiuto di un insegnante privato.

Rizwan ha un fratello minore di nome Zakir (Jimmy Shergill) che comincia a soffrire delle troppe attenzioni riservate al fratello e della sua popolarità nel quartiere, sviluppando una sorta di gelosia rancorosa che lo porterà una volta laureatosi a lasciare la famiglia e l’India, trasferendosi negli States.

Una volta che Zakir ha preso la cittadinanza e il suo lavoro gli permette una vita decorosa chiede che fratello e madre si trasferiscano a vivere con lui a San Francisco, ma nel frattempo la madre muore e a Rizwan toccherà affrontare l’America solo e spaventato.

Al suo arrivo Rizwan troverà un fratello cresciuto e maturato e l’affetto della cognata che capendo il suo disagio proseguirà il lavoro iniziato dalla madre, mentre il fratello gli offrirà un lavoro di rappresentante di cosmetici che permetterà a Rizwan di incontrare Mandira (Kajol), la donna che sposerà e con la quale realizzerà la promessa fatta alla madre di trovare la felicità, ma di mezzo ci si metterà il destino e la tragedia dell’11 settembre con tutte le sue nefaste conseguenze.

Il cinema made in Bollywood non smette mai di sorprendere per la sua vitalità e schiettezza e anche quest’ennesima pellicola firmata dal regista Karan Johar (Non dire mai addio) non è da meno, anzi cerca di fare qualcosa di più, ponendosi a mezzavia tra una narrazione squisitamente Hindi e le dinamiche tutte occidentali di un’ambientazione americana provando a prendere il meglio, cinematograficamente parlando, da entrambe le culture.

Guardando Il mio nome è Khan non si può non pensare a Forrest Gump, ma nemmeno al Sam di Sean Penn o al Rain man di Dustin Hoffman, la diversità è negli occhi di chi guarda, Johar non ha alcun timore a ritrarre un personaggio che vive ai margini, ma che cerca il suo personale sogno americano, ma soprattutto una vita normale e una felicità necessaria, nonostante ad un certo punto dopo una faticosa integrazione l’incubo del terrorismo lo riporti brutalmente ad essere un emarginato.

Certamente nella pellicola di Johar ci sono alcune semplificazioni che potrebbero destare perplessità, ma il bello del cinema indiano è proprio questo non aver timore della retorica, di un linguaggio quuasi fiabesco con il quale affrontare argomenti difficili con una meravigliosa ingenuità di fondo, un ingenuità di cui  il cinema odierno abbisogna e che sia il cinema europeo che quello d’oltreoceano hanno ormai perduto a causa di una narrazione troppo costruita, troppo filtrata e a volte incapace di parlare schietto al cuore dello spettatore.

Sha Ruhk Khan nei panni del protagonista mostra una capcità estrema di interiorizzare il disagio del suo personaggio, splendida e solare Kajol che nella seconda parte sfoggia un registro drammatico davvero notevole e naturalmente co-protagonista la musica, onnipresente, emozionante e travolgente che arriva a scandire puntuale le mille sfumature di un film senza dubbio a misura di spettatore.

Il film verrà presentato in anteprima il 31 ottobre 2010 come evento speciale al Festival Internazionale del Film di Roma, mentre l’uscita nelle sale italiane è prevista per il 26 novembre 2010.