Diaz, recensione in anteprima

Centinaia di protestanti a Genova, nella notte del 21 luglio 2001, incrociano i loro destini con centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa: Diaz è il film che ne rappresenta i momenti che precedono l’assalto alla scuola da parte delle forze dell’ordine, un film doloroso per gli occhi e per l’orgoglio nel’accettare che un connazionale con indosso uno stemma della’Italia possa usare violenza e addirittura tortura sul prossimo indifeso, inerme, che si consegna spontaneamente alla giustizia.

Un massacro che si poteva evitare, ma soprattutto la storia di un massacro che non si poteva non raccontare.

Il regista Daniele Vicari rimarca particolarmente sulla vicenda di Max (Claudio Santamaria), il vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma in comando del VII nucleo che si dimostra essere l’unico personaggio sensibile alla tragedia commessa da superiori, colleghi e subordinati; inoltre, la storia di Alma (Jennifer Ulrich) troneggia da metà film fino alla fine: l’anarchica tedesca che ha partecipato agli scontri è rimasta sconvolta dalla violenza degli scontri, così decide di occuparsi delle persone disperse, restando poi coinvolta nell’agguato e arrestata, umiliata e torturata insieme ad altri prigionieri nella caserma di Bolzaneto.

Il film non è facile da digerire per crudezza di immagini e per mera rappresentazione di un evento accaduto realmente: nonostante il regista cerchi di nascondere il proprio giudizio umano sull’accaduto, esaltando l’aspetto artistico della pellicola con un musiche, montaggio e fotografia graffianti e deturpanti, guardare Diaz è una scelta intelligente per un film che emoziona in modo irrevocabile.

Ammetto che -come spettatore- non mi è piaciuto, come non mi è piaciuto assistere all’angosciante evento di 11 anni fa, perché la violenza mostrata sullo schermo (come nelle immagini di repertorio dei telegiornali dell’epoca) mostra uno spettacolo non di fantasia, ma di realtà, in cui non c’è altra scelta se non prendere atto che le nostre amate forze dell’ordine sono state capaci di commettere atti indicibili, azioni che Amnesty International ha bollato senza sconti come la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.

C’è da dire, per diritto di cronaca, che i poliziotti hanno dovuto affrontare una situazione estenuante che li aveva caricati di vendetta verso gli anarco-insurrezionalisti, i black block; nonostante si possa pensare che l’ordine pubblico è quella funzione stabilita per perpetuare il rispetto assoluto e costante della legge -ma prima ancora di tutti coloro che mettono piede su territorio nazionale e respirano in questo posto chiamato Italia-; la verità è che non ci preme dare un giudizio alla vicenda, ma al film, pertanto…

L’immagine in digitale della bottiglia lanciata a inizio pellicola mentre si rompe è riproposta almeno 4 volte (una per ogni apertura di un nuovo capitolo della narrazione o di un’ellissi temporale indietro) è brutta, eccede in un film che si spiega autonomamente (sebbene nella prima parte sembri non andare da nessuna parte), con i fatti narrati e rivisti dai servizi dei tg; altra bruttezza è la scena in cui Anselmo (Renato Scarpa) parla con un agente di guardia in ospedale che hanno fatto una cazzata… Ridondanza inutile, al contrario della scena sul finale che è a dir poco commovente.

Il coraggio e la curiosità di assistere a Diaz dovrebbe portare tutti a riflettere profondamente per ciò che è accaduto, perché è a causa delle nostre scelte e della nostra indifferenza che qualcun altro ha scelto per noi.

Note di produzione: Diaz ha vinto il premio del pubblico alla scorsa 62° edizione della Festa Internazionale del Cinema di Berlino.