Il nastro bianco, recensione

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Un anziano insegnante ci racconta anni dopo, i misteriosi accadimenti di cui è stato testimone e di una inspiegabile ondata di crimini che investe un paesino rurale nella Germania del 1914.

L’incipit della storia nasce da un incidente a cavallo in cui è coinvolto il medico del villaggio, in principio sembra un isolato scherzo sfuggito di mano, ma in realtà quello sarà solo il primo di una serie di misteriosi episodi che in una inquietante escalation coinvolgeranno gli abitanti, le autorità e i bambini del villaggio.

Il regista Michael Haneke dimostra di conoscere a fondo i meccanismi che muovono l’essere umano e lo fanno interagire con il mondo esterno e con i suoi simili, stavolta il cineasta austriaco, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, esplora la violenza con una lucidità impressionante affrescandone un ritratto gelido ed inquietante aiutato da un bianco e nero glaciale e da una messinscena che sonda ed analizza il rapporto adulto/bambino miscelandovi un’intrigante venatura mistery di grande efficacia.

E’ da un’imposta e ricercata purezza che la violenza e l’intolleranza figlieranno le mostruosità del nazismo e gli orrori dell’Olocausto, e Haneke utilizza la purezza dei bambini ed il il loro essere spugne emotive per analizzare, e in qualche modo mostrarci dove affondano le radici della violenza e del male, di come il seme del nazismo possa germogliare vigoroso perchè protetto e nutrito con piccoli e costanti esempi di quotidiana violenza e intolleranza, racchiusi in un microcosmo che ne amplifica e ne rafforza l’involontario radicamento.

Il nastro bianco nonostante l’estrema austerità della messinscena, anche la mancanza di un commento musicale amplifica ulteriormente il senso di tensione, si rivela visivamente molto potente, Haneke costruisce le sequenze con grande abilità e con una voluta ed estrema pulizia quasi a voler sottolineare l’asetticità del male, il suo radicarsi nellla normalità, il suo esprimersi attraverso il quotidiano.