Il destino di un guerriero-Alatriste, recensione

Nel diciassettesimo secolo il prode soldato spagnolo e abile spadaccino Diego Alatriste (Viggo Mortensen) torna nella natia Madrid dopo aver combattuto nella sanguinosa guerra delle Fiandre in cui gli olandesi si ribellarono al giogo spagnolo scatenando una guerra senza tregua che coinvogerà le due nazioni per oltre ottant’anni.

Alatriste non teme la morte, ma questo non ha impedito che quest’ultima gli portasse via in battaglia l’amico Balboa (Unax Ugalde), così con la tristezza nel cuore e ferite difficili da rimarginare torna in patria dove l’attende la donna che ama, l’attrice Maria de Castro (Ariadina Gil) amante di Filippo IV e il giovane Frigo , il figlio dell’amico morto tra le sue braccia e di cui Diego ha promesso di occuparsi affinchè per volere del padre non diventi mai un solfato.

Quello che troverà Alatriste al suo ritorno sarà un impero trasformato dalla sete di potere, con il popolo affamato da una corruzione dilagante e gli intrighi politici a corte che hanno sostituito la fedeltà ad un sovrano che sembra trasformatosi in una sorta di divinità il cui verbo è professato attraverso la violenza, il terrore e la coercizione di un pericoloso strumento come la Santa inquisizione.

L’onore ed i valori di un vero soldato ben presto si scontreranno con quelli di questo nuovo regime corrotto e quando ad Alatriste verrà affidato il compito di giustiziare alcuni eretici rei di aver complottato contro il Re e lo stesso Dio, Alatriste scoprirà l’inganno che si cela dietro quell’esecuzione e risparmiando le vite di quegli uomini sentenzierà la sua condanna a morte.

Il destino di un guerriero-Alatriste è un’imponente produzione iberica basata sui romanzi a sfondo storico dello scrittore Arturo-Pérez Reverte, diventata il più costoso film della storia della cinematografia spanola mai girato.

Dietro la macchina da preso il pruripremiato regista Agustin Diaz Yanes che con solo quattro pellicole all’attivo ha guadagnato in patria ben 12 premi Goya, gli Oscar spagnoli, tre dei quali proprio con questo film per i migliori costumi, scenografie e produzione.

Yanes sfrutta oltremodo la vena drammatica di Mortensen maestro di sfumature melò e personaggi tormentati, allestendo intorno al talentuoso attore una messinscena degna di un kolossal con sequenze d’interni di caratura artistica, costumi memorabili e un ricercato realismo per quanto riguarda violenza e ricostruzione storica.

Purtroppo il film soffre di un eccesso di cupezza che lo porta in più di un’occasione nei territori del ridondante melodramma tout-court, dimenticando volontariamente il fattore intrattenimento e allestendo una plumbea via crucis, che se pur esteticamente sontuosa, perde inesorabilmente di ritmo rischiando in più di un’occasione di annoiare lo spettatore in cerca di avventurose suggestioni da cappa e spada.

Quindi il consiglio è se amate gli affreschi cine-storici sontuosi ed avete apprezzato le atmosfere del Cristoforo Colombo di Ridley Scott, questo film potrebbe incontrare i vostri gusti, se invece complotti alla Richelieu, duelli a fil di spada e rutilanti salvataggi di donzelle in pericolo sono il vostro obiettivo è decisamente il caso di passare oltre.