I Due Papi di Fernando Meirelles, l’aspetto umano di due religiosi

I Due Papi di Fernando Meirelles è un film del 2019 con la sceneggiatura di Anthony McCarten, liberamente ispirato dall’opera teatrale che quest’ultimo ha scritto sotto il nome di The Pope. Oggi il film è distribuito su Netflix dopo il lancio sulla piattaforma del 20 dicembre 2019.

Il film

Ciò che è l’idea di base, ovvero i “Vatileaks” passati alla storia con un nome che la stampa vaticana ricorda come i giorni del “Corvo”, si dirama di minuto in minuto in una feritoia sul personale dei due protagonisti. Stiamo parlando, ovviamente, di Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, e di Jorge Maria Bergoglio, oggi Papa Francesco.

Il primo si presenta con la sua architettura ferrea e cementificata sul dogma, il secondo veste i panni del rivoluzionario con i piedi per terra, che rifiuta la vestizione quando dovrà salutare la folla dopo la sua elezione a Vescovo di Roma nonché Capo della Chiesa: “Il Carnevale è finito da un pezzo”. Ciò che porterà i due a guardarsi negli occhi sarà la parola “dimissioni”. Ratzinger vuole rinunciare al ministero petrino e per questo convoca Bergoglio nella tenuta pontificia di Castel Gandolfo. Bergoglio, a sua volta, vuole rinunciare alla veste di cardinale e restare nell’umilità del suo esercizio di prete. Arrivato al cospetto di Benedetto XVI gli consegna la sua lettera di dimissioni che attende la firma del Santo Padre, ma quest’ultimo non gli dà ascolto.

Uomini e santi

Ciò che si presentava come una latente rivalità tra i due diventerà un’occasione per estirpare tanti sassolini dalle scarpe: al loro primo colloquio, nei giardini della residenza pontificia, i due snocciolano i temi più scottanti per la Chiesa. Omosessualità e matrimonio, condanna ai preti pedofili, castità e preghiera diventeranno tanti dardi scoccati l’uno contro l’altro, ma quel che si presenta come uno scontro diventa in realtà un antibiotico che consente lo sfogo dell’infezione per poi mostrare tutto ciò che accomuna i due protagonisti: l’amore per Dio.

Benedetto XVI vuole dimettersi e rinunciare al suo ruolo di Papa, Bergoglio non vuole più essere cardinale. Il loro confronto si consuma tra un bicchiere di vino che l’argentino tracanna mentre il tedesco suona il pianoforte. Parlano di Abbey Road dei Beatles e di calcio, fino a consumare una pizza nella Stanza delle Lacrime, adiacente la Cappella Sistina mentre i visitatori sono intenti a osservare l’immensa opera custodita nei Musei Vaticani. Uomini e santi, ma soprattutto uomini.

La musica

Nei primi minuti del film, prima del conclave che vedrà Ratzinger salire al soglio pontificio, Bergoglio lo affianca e fischietta Dancing Queen degli Abba. Il popolare brano diventa la colonna sonora dell’elezione del nuovo Papa. Nel film troviamo anche una versione corale di Bella Ciao, un accostamento con le immagini sacre che funziona, specialmente quando i due personaggi si chiudono nei più silenziosi momenti di riflessione. Sarà Abbey Road dei Beatles a chiudere il cerchio, ma sarebbe ingiusto rivelare in che modo con questo articolo.

Queste scelte rendono I Due Papi di Fernando Meirelles un’imitazione pop di quello stesso pop che è proprio di Paolo Sorrentinoper dirla come Esquire – e forse l’intento è proprio quello: raccontare una storia vaticana con il linguaggio che appartiene al mondo esterno, alla ricerca di una leggerezza che rende il film una visione fluida e piacevole.

Perché “acqua santa di rose”?

Se la leggerezza descrive la visione del film che abbiamo già descritto come piacevole, non si può dire altrettanto di alcuni errori. Non si comprende perché un attore relegato a un ruolo secondario come Libero De Rienzo reciti dapprima in presa diretta, con la sua stessa voce – lo notiamo nella sua prima apparizione durante il film – per poi essere doppiato con una voce che non è la sua. Lo stesso Bergoglio, interpretato da Jonathan Pryce, talvolta recita con la sua voce e il suo italiano stentato per poi continuare con la voce del doppiatore. Vi è una certa incoerenza, e questo è spiacevole.

La recitazione di Jonathan Pryce e di Anthony Hopkins è magistrale: il primo è verace e saggio, il secondo è teatrale e irremovibile, e il registro aulico dei due raggiunge momenti di pura poesia che talvolta si appuntisce con esplosioni pulp.

Tuttavia abbiamo a che fare con un film ottimo nella fotografia, nella recitazione e nella ricostruzione, ma poco chiaro negli intenti. Lo stesso regista ha diretto City Of GodCecità. C’è chi parla di svolta da endorser per la Chiesa, ma ciò che vuole comunicare il film è l’aspetto umano dei due religiosi: il loro dialogo ricompone un puzzle costellato di esplosioni e discordia all’inizio, ma saranno gli stessi elementi a creare un ponte di comunicazione tra i due mondi.