Buried-Sepolto, recensione

Paul Conroy (Ryan Reynolds), autista di una ditta americana di trasporti di stanza in Iraq, si ritrova sepolto vivo in una cassa di legno dopo essere stato rapito da alcuni terroristi iracheni che gli intimano di contattare le autorità affinchè vengano consegnati, in cambio della sua liberazione, cinque milioni di dollari.

L’uomo si ritrova così in mezzo al deserto con un cellulare impostato in lingua araba, un’accendino e meno di due ore di aria, dopo qualche istante di panico assoluto, inizia per lui un’ansiogena corsa contro il tempo che lo vedrà contattare i propri familiari, trattare con i terroristi e rintracciare un numero d’emergenza allestito per affrontare crisi con ostaggi.

Il tempo scorre, l’aria diminuisce e le speranze si affievoliscono, ma Conroy non vuol mollare, a casa l’aspetta la sua famiglia e non ha intenzione di lasciarsi morire senza lottare.

Dopo le entusiastiche recensioni d’oltreoceano ecco approdare nelle nostre sale il thriller Buried-Sepolto vivo, piccolissimo film girato dallo spagnolo Rodrigo Cortés con pochissimi mezzi e un gran talento per la regia con un protagonista, Ryan  Reynolds che si lancia in un assolo drammatico con un certo impegno e bisogna ammettere con risultati soddisfacenti.

Se da una parte Buried-Sepolto eccelle tecnicamente e dimostra appieno che Cortés è un cineasta da battaglia con doti ancora tutte da sfruttare, dall’altra bisogna anche ammettere che sostenere per uno spettatore medio 90 minuti di girato in un angusto spazio immerso nella semioscurità e non stiamo parlando di sintomi da claustrofobia, potrebbe rivelarsi un’esperienza non poco frustrante.

Il film indubbiamente scorre, considerando il limitatissimo spazio di manovra a disposizione del volenteroso protagonista,  ma la parte dei dialoghi e alcune situazioni che si creano lungo l’ansiogena evoluzione della storia lasciano perplessi e complice un doppiaggio in parte inadeguato sconfinano pericolosamente in alcuni momenti di comicità involontaria.

Cortes regala un paio di notevoli virtuosismi con la macchina da presa, Reynolds trasmette con una certa efficacia l’asperità della situazione, ma alcune telefonate, ci riferiamo a quella con la madre e soprattutto quella registrata con gli uffici dell’azienda arrivano a toccare momenti di assurdo che dimostrano come non sia semplice imbastire una serie di dialoghi che risultino perlomeno credibili all’interno di una messincena tanto spartana.

In realtà nel film non c’è neanche una chiave di lettura politica ben motivata a ciò si aggiunge un finale troppo prevedibile nel suo ricercato nichilismo, impossibile non arrivare a capire decisamente troppo presto che epilogo avrà la situazione, chissà forse un finale meno scontato sarebbe stata la vera chiave di volta di un’operazione che ci sembra riuscita solo in parte.

E’ chiaro che l’estremizzazione di un certo cinema indipendente in realtà non punti  allo spettatore, ma a dimostrare qualcosa, Cortes ha dimostrato di essere un  talentuoso regista capace di girare con pochissimi mezzi, ha provato non sempre con efficacia a dirci la sua sulla guerra in Iraq e sulla vergognosa speculazione economica della stessa, confezionando un film che sinceramente possiede una carica ansiogena notevole, ma che lo stesso regista, non si capisce quanto volontariamente, con una serie di situazioni al limite dell’inverosimile frammenta in continuazione.

Quindi tirando le somme lode all’esecuzione, lode al protagonista, ma sinceramente il film di Cortes potrebbe non rivelarsi per tutti un’esperienza all’altezza delle aspettative.

Note di produzione: il film presenato in anteprima al Sundance Film Festival 2010 ha fruito di un budget di circa tre milioni di dollari.