Waterworld, recensione

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In un mondo ormai in balia degli oceani, quasi totalmente coperto dall’acqua, Mariner (Kevin Costner), un mutante uomo/pesce, veleggia in solitaria a bordo del suo trimarano solcando l’immensa vastità degli oceani e vivendo di baratti di porto in porto.

La sua condizione di mutante ne fa un trofeo molto ambito per un gruppo di sciacalli armati e pericolosi che occupa una zona di mare dove Mariner sta transitando, per complicare ancor di più le cose un gang di pirati, gli Smokers, capeggiata dallo psicopatico e violento Diacono (Dennis Hopper), sono a caccia di una bambina che secondo una leggenda porterebbe tatuata sulla schiena una mappa che condurrebbe dritti dritti alla mitica Dryland, la terraferma.

Imprigionato, Mariner verrà liberato in cambio di aiuto e un mezzo di trasporto sicuro da Helen (Jeanne Tripplehorn) e la sua bambina Enola (Tina Majorino), dopo alcuni giorni di viaggio l’uomo scoprirà che Enola è la portatrice dell’ambita mappa e che gli Smokers sono sulle loro tracce. Così il Diacono rapisce Enola e toccherà a Mariner infiltrarsi nella base marina degli Smokers, una petroliera, liberare Enola e portrala sana e salva alla terra promessa.

La coppia di Kevin, Reynolds e Costner, torna a lavorare insieme dopo gli esordi a base di road-movie generazionale anni’80 di Fandango e le avventurose peripezie di un fascinoso Robin Hood da blockbuster.

Stavolta la coppia investe anima e corpo in un’avventurosa pellicola post-apocalittica alla Mad Max, completamente ambientata sull’oceano con tutte le complicazioni del caso, infatti il regista dovrà fare i conti con una location decisamente ostile, un devastante uragano, l’instabilità delle correnti e tutti i fastidiosi effetti collaterali  di un kolossal marino.

Il film costò qualcosa come 175 milioni di dollari, sforando ripetutamente il budget, in America fu un flop, ma si riprese all’estero, e con i provvidenziali incassi dell’home-video riuscì di poco a coprire le spese di produzione, non mancando però di beccarsi una bella sfilza di Razzie Awards.

Il film soffre di una lunghezza eccessiva, si nota un’eccessiva inclinazione alla spettacolarità come escamotage riempitivo, lasciando lungo la strada tutta un’interessante serie di tematiche appena sfiorate o non pienamente sfruttate, restano un carismatico protagonista, un villain d’eccezione, e un film che nonostante i troppi ammiccamenti, anche visivi, alla trilogia di Mad Max si lascia guardare, dopotutto Reynolds è abituato alle imprese colossali, basta ricordare l’interessante, ambizioso e sfortunato progetto Rapa Nui.