Pearl Harbor, recensione

In un incipit ambientato in un bucolico Tennessee del 1923 facciamo la conoscenza di  Rafe McCawley e Danny Walker, due vivaci ragazzini che mostreranno una sin troppo precoce passione per il volo che finirà per metterli nei pasticci.

Nel 1940 ritroviamo Rafe (Ben Affleck) e Danny (Josh Hartnett) arruolati nell’aviazione degli Stati Uniti, sotto il comando del maggiore Jimmy Doolittle (Alec Baldwin), qui assistiamo al primo incontro e al colpo di fulmine tra Rafe Johnson ed Evelyn (Kate Beckinsale), un’affascinante infermiera della Marina che aiuterà Rafe a passare il suo esame di idoneità fisica.

Purtroppo i due verranno separati quando Rafe verrà assegnato agli squadroni della Royal Air Force inglese, così la coppia si saluterà promettendosi un futuro insieme, ma proprio quando Evelyn e Danny verranno assegnati alla base di Pearl Harbor, arriverà la notizia che Rafe, abbattuto con il suo aereo sulla Manica risulta disperso.

Il dolore per la reciproca perdita avvicinerà Danny ed Evelyn che con il passare del tempo si conforteranno a vicenda finendo per innamorarsi, situazione che culminerà con l’inaspettato ritorno di Rafe, miracolosamente sopravvissuto allo schianto del suo aereo, ritorno che scatenerà in Danny ed Evelyn disagio e sensi di colpa, così mentre Rafe saprà della storia d’amore tra i due, i giapponesi attaccheranno Pearl Harbor.

Michael Bay mette mano ad importanti e decisivi accadimenti storico-bellici dopo aver salvato San Francisco da alcuni missili a testata batteriologica in The Rock e l’intero pianeta da un gigantesco meteorite in Armageddon-Giudizio finale.

Il cinema di Bay torna con tutti i suoi pregi e difetti, da una parte una tecnica di altissimo profilo per un cinema ipervitaminizzato puntato allo spettacolo tout-court, dall’altra una serie di vezzi come la patinatura alla Tony Scott, imprinting della sua gavetta nei videoclip. un patriottismo esasperato e a tratti esasperante con massicce dosi di retorica, tutti elementi che però nel loro insieme arrivano allo spettatore che ben recepisce questo linguaggio hi-tech, facendo di Bay uno dei registi e produttori più prolifici di Hollywood, con incassi stratosferici che confermano l’appeal di questo artista dell’immagine sul grande pubblico.

Steso un velo pietoso su chi ha eletto Bay uno dei peggiori registi di sempre, chiaramente parliamo di quella piccola, ma rumorosa frangia di cinefili che ancora pensa al cinema come un’elite e al grande pubblico come incapace di prescindere il proprio gusto dal marketing, è indubbio che anche questo Pearl Harbor ha la sua bella dose di difetti o vezzi che dir si voglia, tra questi la linearità dei personaggi, ma quando mai Bay ha puntato allo spessore dei dialoghi o allo scavo dei personaggi, la già citata ridondante retorica in questo caso applicata ad una certa libertà nel proporre i fatti storici in maniera piuttosto schierata, ma sinceramente sarebbe stato strano il contrario e stavolta una durata eccessiva della pellicola che si percepisce oltremodo appesantendo il risultato finale.

Premesso doverosamente ciò, anche stavolta il livello tecnico è impressionante, gli effetti visivi di altissimo profilo e senza dubbio lo spettacolo e l’intrattenimento sono assicurati, ma su questo non avevampo alcun dubbio, visto che Bay parla da sempre al pubblico e lo fa in modo schietto, fregandosene altamente di tutto il resto e tanto per cambiare anche stavolta la risposta del pubblico lo premiato.

Note di produzione: La sceneggiatura è stata affidata al Randall Wallace di Braveheart, agli Oscar 2001 il film venne candidato a quattro statuette tecniche vincendo quella per il miglior montaggio sonoro e di contro arrivò una pioggia di nomination, ma nessuna vittoria ai Razzie con sei candidature tra cui peggior film, peggior sceneggiatura e peggior regista. Il film a fronte di un budget stimato in 140 milioni di dollari ne ha incassati worldwide oltre 440.