Il figlio più piccolo, recensione

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In una afosa Bologna del 1992, Luciano Baietti (Christian De Sica) sta per convolare a frettolose nozze con la sprovveduta Fiamma (Laura Morante) madre dei suoi due bambini, ma in men che non si dica, e a cose fatte, il Baietti sparisce nel nulla con il suo commercialista e con tutte le proprietà della neo-consorte.

Passano alcuni anni, Baietti è ormai a capo di una lucrosa società, naturalmente  la crisi economica e gli intrallazzi gestiti dalla sua elastica e sin troppo creativa amministrazione cominciano a dare i loro frutti avvelenati, il fisco incombe, la Guardia di Finanza è pronta a smantellare pezzo per pezzo la Baietti Enterprises portando a galla tutto il marcio nascosto con conseguenze facili da intuire.

Così mentre Baietti padre se ne sta in panciolle a godersi i suoi soldi e a cercare l’ennesimo escamotage anti-fisco supportato dal suo ambiguo consigliere Sergio Bollino (Luca Zingaretti), la famiglia abbandonata anni prima vive di sogni impossibili da realizzare, con moglie in cerca dell’inarrivabile miraggio televisivo, il figlio maggiore Paolo e il minore Baldo, quest’ultimo un ragazzo ingenuo e sin troppo buono, che studia cinema e supporta la madre nelle sue numerose crisi depressive.

Purtroppo Baietti padre, una volta trovatosi alle corde e in procinto di capitolare di fronte ad una moltitudine di altarini che stanno per venire a galla con l’imminente fallimento della sua società, disastro che neanche un matrimonio organizzato ad hoc riuscirà a salvare, ripiomba nella vita del figlio minore abbandonato quindici anni prima e cresciuto con una figura paterna idealizzata in positivo e ben lontana dalla realtà ignobile e truffaldina dell’egocentrico genitore, con un piano tanto diabolico quanto infame, intestare tutta la baracca in tracollo all’improvvido e ingenuo figlio, scaricando su di  lui tutte le nefaste conseguenze di un vita di intrallazzi all’insegna del compromesso.

Un Avati in gran parte inedito quello visto e percepito ne Il figlio più piccolo, con unn cinismo ed una cattiveria per nulla mascherati, narrati e metabolizzati  attraverso la consueta veste dell’amarcord in celluoide popolato di simpatici  ed irrimediabili perdenti, in realtà solo schiette maschere che non lasciano adito ad alcuno scampo morale.

Il De Sica/Baietti  e lo Zingaretti/Bollino sono quel che sembrano e fanno quel che fanno, senza fastidiosi scrupoli morali od etici,  ma all’insegna della legge del branco dove cane mangia cane, cibandosi del più debole in un inno all’egocentrismo e all’avidità che mai come oggi è specchio della società in cui viviamo, e che partorisce mostruosi modelli mediatici a cui le nuove generazioni, figlie del troppo, inneggiano e si ispirano.

Se la storia molto attuale cita gli odierni furbetti del quartierino, avati omaggia sia visivamente che con le sue caratterizzazioni, le ambigue e memorabili maschere di un cinema che non c’è più, De sica a furia di sottrarre quasi si annulla, cercando di cancellare l’allegoria da spot tv e il Pulcinella da cinepanettone, per regalarci finalmente una convincente maschera triste, cinica e libera dalla grassa risata da barzelletta, per puntare costantemente al ribasso, e lo fa con la piena consapevolezza di un attore in parte ritrovato.

Il suo personaggio, tanto odioso quanto patetico, in altri tempi sarebbe stato indossato con nonchalance da Alberto Sordi, Vittorio Gassman, o anche  Franco Fabrizi, come dimenticare i suoi memorabili personaggi tra il meschino ed il cialtronesco, ricchi di un truffaldino fascino da bamboccione sciupafemmine come ne I Vitelloni, ma anche nel classico Una vita difficile di Dino Risi, accanto al suo alter ego ideale l’Albertone nazionale.

Il film di Avati è concepito per omaggiare la comedy amara degli anni sessanta e settanta popolata da melliflui personaggi che conquistavano con l’amarezza delle loro fantasiose esistenze da finti vincenti,  sicuramente qualcuno non coglierà il minimalismo di un cinema fatto di attori che Avati ci ripropone senza alcuna ricercata vis registica, ed una messinscena volutamente sottotono, che potrebbe spiazzare chi non conosce a fondo un cinema d’altri tempi ed altri intenti come quello di Monicelli, De Sica o Dino Risi rischiando così purtroppo di non coglierne tutte le  raffinate e melanconiche sfumature.