Venezia non dimentica la Shoah: applausi per “Il Paradiso” di Konchalovsky

Tutta l’esperienza di Andrei Konchalovsky in un film sulla Memoria che gli vale il premio «Bresson». Al Lido il suo Il Paradiso riceve applausi malgrado un tema come quello trattato (la Shoah) sia in qualche modo inflazionato.

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Ma il regista russo ne esce a testa alta. Sa come parlare dell’Olocausto. Sa come si vince a Venezia. Due anni fa si aggiudico il Leone d’Argento con Le notti bianche di un postino. Sa che Venezia è meglio di Hollywood e non lo manda certo a dire:

Hollywood fa film per bambini, perché è un business e niente di più. Hanno capito che i film oggi sono fatti per gente che non legge: i giovani, che guardano Internet e amano le immagini. In passato invece Hollywood realizzava film per i genitori. Hollywood ha capito, guarda al profitto e si è adeguata ai tempi. Fortunatamente ci sono mezzi per fruire dei film restando lontani dalle sale. Io non faccio film per i multiplex, mentre i ragazzini mangiano pop corn.

Diretto, trasparente, saggio.

Il Paradiso è ambientato nella Francia occupata dai nazisti, ha tre protagonisti, che poi, trascendendo la realtà, dopo morti si raccontano in monologhi a punteggiare la storia: la contessa aristocratica russa che per salvare bambini ebrei finisce in un campo di concentramento (Julia Vysotskaya alla quale suo marito, ovvero Konchalovsky, ha fatto tagliare i capelli a zero, ma è affascinante lo stesso); l’ufficiale tedesco colto col chiodo fisso per un Intermezzo di Brahms, e in giorni felici in Toscana amò, non corrisposto, quella donna (Christian Clauss); il collaborazionista francese (Philippe Duquesne) che nelle autointerviste racconta di avere una famigliola felice, padre amorevole. Deve portare il figlio al circo, ma prima interroga l’aristocratica russa arrestata.

La banalità del male incorniciata da una citazione dantesca, come fece l’ungherese Nemes a Cannes in Il figlio di Saul, mentre musica classica e nazismo furono il pane de Il pianista di Polanski. Eppure c’è una prospettiva inedita: la sofferenza fisica viene dopo. «Non volevo raccontare la violenza sul corpo ma dello spirito, non meno dolorosa ma più difficile da trasmettere al pubblico».