Shame, recensione

Brandon (Michael Fassbender) è un trentenne di New York che vive la sessualità in modo compulsivo ed anaffettivo, il suo continuo bisogno di appagare quella che si mostra da subito come una vera e propria patologia, lo ha portato negli anni ad assumere una serie di comportamenti borderline che lo hanno imprigionato in un quotidiano fatto di materiale pornografico, rapporti sessuali occasionali spesso e volentieri rappresentati dai servigi di svariate prostitute, tutto per sfogare quello che la sua mente gli impone come istintivo bisogno primario. Brandon pur se non lo palesa e nonostante le sue numerose conquiste è di fatto un asociale e quando arriveranno due figure femminili a scuotere il suo abitudinario tran tran quotidiano, la tormentata sorella Sissy (Carey Mulligan), cantante con il suo carico di disperazione e una fascinosa collega d’ufficio che gli mostrerà il lato emotivo del relazionarsi con l’altro sesso, per John i problemi si acuiranno con l’incrinarsi del suo precario e virtuale equilibrio mentale che subirà un traumatico contatto con la realtà, portandolo sempre più in basso, ma anche verso una disperante consapevolezza della situazione in cui versa.

Il regista Steve McQueen dopo Hunger torna a collaborare con Michael Fassbender per un film che chiude un’annata davvero d’oro per l’attore dopo il memorabile Magneto nel cinecomic X-Men: L’inizio e il Carl Jung del biografico A Dangerous Method di David Cronenberg. La regia di McQueen elegante, sobria e di una profondità notevole smussa gran parte del materiale decisamente scabroso della sceneggiatura, scritta da McQueen in tandem con Abi Morgan. E’ chiaro che il sesso è cardine e tematica centrale e quindi immagini esplicite, nudi integrali e linguaggio oltremodo schietto sono inevitabilmete il sale della narrazione, ma a prescindere da qualche nudo mostrato nell’incipit che a prima vista può sembrare mera ostentazione, ma che in realtà intende parlar chiaro allo spettatore riguardo alla fisicità del film, per il resto le scelte stilistiche di McQueen, vedi l’optare per una colonna sonora composta da suggestive sonate per pianoforte, unita all’intensità emotiva tramessa dei due bravissimi protagonisti, rende il film sorprendentemente pregno di significati latenti.

Shame ci mostra in tutta la sua struggente fragilità un uomo dominato dall’istinto e incapace di realzionarsi col prossimo, in cui la sessualità diventa schiavitù e il proprio corpo e quello altrui meri veicoli di un momentaneo ed illusorio appagamento fisico, atto a colmare un vuoto affettivo nei fatti incolmabile. Il protagonista ci ha ricordato, anche nelle fattezze il cinico chirurgo plastico sesso-dipendente Christian Troy interpretato da Julian McMahon nel serial tv Nip/Tuck, anch’egli tanto fascinoso quanto disperatamente tormentato dalla solitudine.

Shame è senza dubbio un gioiello limitato forse dai contenuti, di certo non tutti gli spettatori sono disposti a fruire di contenuti tanto espliciti, certo è che se non si ci si scandalizza troppo facilmente il film di McQueen è di quelli davvero da non lasciarsi scappare.

Note di produzione: Il film. transitato alla sessantottesima edizione del Festival di Venezia dove Fassbender ha ricevuto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile, ha vinto anche i premi FIPRESCI, CineAvvenire e Arca CinemaGiovani. Nel film Carey Mulligan interpreta una struggente versione del classico New York, New York (video in coda al post).

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