Recensione: Torno a vivere da solo

Giacomo (Jerry Calà), dopo essersi sdoganato dai genitori 26 anni fa, andando a vivere da solo a Milano, oggi è un agente immobiliare di successo, con tanto di moglie viziata, Francesca (Tosca D’Aquino), che ha un debole per le scarpe, e due figli Chiara (Marcedes Henger) e Mirko (Rudy Smaila) che lo usano come bancomat.

Infelice della situazione che si è creata, Giàgià come è chiamato dagli amici, decide di separarsi dalla moglie, riprendere possesso del suo loft che ha ancora molti degli accessori che l’hanno reso famoso, dal wc collegato al jukebox al tavolo con le gambe autoreggenti, e tornare a vivere da solo.

I problemi, rispetto ad una volta, sono diversi: adesso Giacomino deve imparare a gestire, non sono più i genitori asfissianti, che ormai sono vecchi (interpretati da Paolo Villaggio e Gisella Sofio), ma la famiglia allargata, i rapporti con gli amici, tra cui quello con Ivano (Enzo Iacchetti), gay innamorato di lui e quello con Nico (Don Johnson) donnaiolo che vive la sua stessa situazione, e le nuove relazioni con le donne tra tutte Jessica (Eva Henger),ex di Nico e Telma (Nara de Natividade), la modella.

Torno a vivere da solo, diretta da Jerry Calà è il sequel della commedia di Marco Risi, Vado a vivere da solo, che mira a far riflettere il pubblico divertendo e a ricreare il clima guascone del primo episodio, senza riuscirci fino in fondo.

Nel riproporre il clima anni ottanta Jerry Calà non è neanche male, tanto che oltre a riproporre parte dell’arredamento storico del loft e musiche d’altri tempi, qua e là inserisce il suo tormentone, Libidine, guardando dritto in macchina, ma se di risate se ne fanno ben poche, di riflessioni ne escono ancora meno, a causa di contenuti stereotipati all’estremo.

Il film, se non fosse per alcune parti non proprio all’altezza, per usare un eufemismo (come quella di un Don Johnson doppiato in milanese, tremendo, e di una Eva Henger, che purtroppo non è stata doppiata), non sarebbe nemmeno male, perché potrebbe essere una commedia senza infamia e senza lode (certamente meglio del precedente lavoro di Calà, Vita Smeralda), con cui si può passare il tempo.

Concludendo: giudicare Torno a vivere da solo non è facile, perché se vuole risultare trash (senza volgarità) come le commedie anni ottanta, ha raggiunto il suo obiettivo, ma se punta a far ridere, la sua comicità è passata di moda e se vuole mandare qualche messaggio critico sulla nostra società la piattezza del contenuto non l’aiuta.