La Chiave di Sara, recensione in anteprima

In occasione del Giorno della Memoria della Shoah, arriverà nelle sale italiane dal 13 Gennaio, grazie alla distribuzione targata Lucky Red, La Chiave di Sara, titolo originale Elle s’appelle Sarah, trasposizione cinematografica dell’omonimo libro scritto da Tatiana De Rosnay campione di vendite in tutto il mondo, una pellicola che aggiunge un tassello importante al patrimonio cinematografico dedicato alla memoria della Shoah, per non dimenticare le atrocità e il nonsenso umano.

Tra il 16 e il 17 luglio del 1942 la piccola Sara Starzynski, insieme ai genitori, vengono identificati dai rastrellamenti della gendarmeria francese in giro per Parigi (più di 9000 unità) che ha il compito di raggruppare tutti gli ebrei della capitale: 13.152 tra uomini, donne e bambini che, nell’operazione Vento di Primavera, furono portati al Vel D’Hiv (il velodromo d’inverno) per essere deportati nei campi di concentramento tedeschi.

Nella Parigi dei giorni nostri, la giornalista americana Julia Jarmond (in Tézac) indaga per un reportage sulla vicenda e, durante le ricerche, scopre che la famiglia del marito possiede l’abitazione che 60 anni prima fu dimora della giovane Sara e della sua famiglia, composta da lei, dai genitori e dal fratellino Michael, nascosto nell’armadio dalla sorella per non permettere ai poliziotti di sequestrare anche lui.

Già dal momento in cui la famiglia Starzynski, senza il piccolo Michael, arriva al Vel D’Hiv –tramutato, per l’occasione, in campo di transito– si scorgono reazioni d’isteria da parte della folla che danno i brividi e culminano nella scena in cui i figli sono separati dalle madri per essere destinati ai diversi campi di concentramento in Germania; per fortuna, un giovane ufficiale nazista di nome Jacques permette la fuga a Sara e una sua amica -che presto incontrerà la morte a causa della difterite-.

Dopo aver incontrato una famiglia che decide di prendersi cura della ragazzina, Sara riesce a tornare a Parigi per cercare il fratellino, certa che sia ancora nell’armadio in attesa del suo ritorno; in una vicenda drammatica, dove una tragedia ne sussegue un’altra, la giornalista (interpretata dalla brava Kristin Scott Thomas) ricompone tutti i tasselli di una vicenda familiare, mentre la sua situazione privata cambia in occasione di un evento inaspettato come una gravidanza in passato tanto desiderata.

Cosa si guadagna quando si scopre la verità? La conoscenza, l’incoraggiamento attraverso le decadi che l’amore e la speranza comportano, dove la verità è simbolo di ricerca della propria storia (che rientra nella Storia comune dell’umanità, segnata e logorata nel profondo), per ritrovarsi nel senso di appartenenza che elude l’alienazione, dove non esiste più logica tra vincitori e vinti, ma solo un punto di partenza da dove ricominciare. E un conto da pagare ancora troppo alto, per tutti.

Film diretto da Gilles Paquet-Brenner, le musiche originali sono firmate da Max Richter e hanno la magnificenza della semplicità di archi e pianoforte, per una pellicola poco edulcorata, asciutta, densa di significato e di emozione. Da non perdere.

Note di produzione e curiosità: Il film, presentato al Festival del Cinema di Toronto, è uscito nelle sale europee nella primavera 2011, mentre negli Stati Uniti è giunto in estate; in totale, ha raccolto nel mondo 17 milioni e mezzo di dollari.

L’uomo con il violino e l’anello contenente un veleno mortale (pere permettere all’uomo di decidere quando morire) è il saluto del regista a suo nonno, musicista ebreo-tedesco che visse in Francia finché non fu denunciato dai francesi, per morire all’inizio della deportazione.

Durante la scena della danza con Sarah e il suo futuro marito, la musica è composta da una tromba con sordina, ma la band ha le trombe sprovviste dell’elemento che permette il particolare effetto ovattato.