Happy Family, recensione

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Lo scrittore, anzi autore, Ezio (Fabio De Luigi) si barcamena tra un’ispirazione altalenante, una relazione appena terminata e una realtà che spesso si confonde con la fantasia partorendo vividi ricordi mai vissuti, ma solo immaginati. Nasce così un nuovo racconto che lo vede ritrovarsi voce narrante e ospite nel bel mezzo di una cena tra due famiglie i cui rispettivi figli, appena sedicenni, hanno deciso di sposarsi.

Per Ezio il suo parto di fantasia subirà numerosi stop creativi, ma di certo troverà l’amore in una bella e complessata pianista di musica classica, assisterà al lento, ma inesorabile disfacimento fisico di una madre ottantenne e di suo figlio, lei affetta da Alzhaimer, lui da un cancro, a cui si aggiungono un paio di mogli insoddisfatte, un marito che non vuole crescere, e tanta voglia di raccontare e raccontarsi.

Durante i voli pindarici di Ezio i suoi personaggi si riveleranno invadenti, insoddisfatti, logorroici, faranno richieste e si ribelleranno ad alcune scelte creative, come un finale troppo frettoloso, ma alla fine tutti saranno accontentati almeno in parte, i loro personaggi troveranno un epilogo, se non definitivo almeno in evoluzione, ed Ezio finalmente esausto proverà a tornare alla realtà in cerca di un contatto umano e reale, di cui ora, dopo tanta rumorosa solitudine, sente davvero il bisogno.

Gabriele Salvatores torna in gran forma e inanella l’ennesimo buon risultato per  un cinema italiano che da qualche comedy a questa parte ,sembra aver ritrovato un pò della perduta verve, così tra i vari Ozpetek, Verdone e Veronesi, ritroviamo  anche un Salvatores reduce dal poco fortunato Come Dio comanda, che con Happy Family aleggerisce i toni e torna al teatro suo primo amore, omaggiandolo come fece a suo tempo con Turnè, stavolta con una commedia scritta da Giovanni Veronesi per il Teatro dell’Elfo di Milano, dove Salvatores esordisce negli anni’70 come attore e regista teatrale.

Inutile dire che come nella sceneggiatura, fulcro ed anima di tutta l’operazione è un sorprendente Fabio De Luigi, più volte sprecato in tristissimi ruoli da cinepanettone, che qui può sfoggiare tutta la sua vis surreale e la pungente ironia che contraddistingueva molti dei suoi migliori personaggi televisivi. il resto del cast orbita intorno  alla sua performance, proprio come i personaggi del racconto del protagonista, regalandoci qualche spassoso assolo, ma tutti impegnati a trasformarsi a turno in voce narrante, un escamotage che non sempre risulta privo di controindicazioni.

Ogni tanto si avverte forte il cortocircuito tra teatro e cinema, un binomio che per quanto ricco di similitudini e percorsi creativi comuni non sempre trova un’ideale simbiosi sul grande schermo, Salvatores frammenta volutamente e a più riprese la narrazione con incursioni ed assoli degli attori, che in più di un’occasione si rivolgono alla macchina da presa/spettatore interrompendo bruscamente una linearità ed un narrare, che se in alcuni momenti sembra aderire perfettamente alla messinscena, in altri risulta un pò forzato.

Detto ciò, la mano di Salvatores e l’atmosfera decisamente easy di tutta la pellicola fanno di questo film un piccolo gioiello, mai un tono sopra le righe, un film quasi bisbigliato, neanche la Buy può esibirsi in una delle sue performance da nevrosi, e Bentivoglio ha una cadenza quasi cantilenante nell’approcciarsi ai dialoghi. Salvatores invece trova lo spazio per raccontare la sua Milano riuscendo addirittura a citare se stesso.

Salvatores con Happy Family fa sicuramente centro, il film regala più di qualche risata, usando un’ironia mai volgare, ogni sorriso è spontaneo, mai cercato o provocato, ma solo suggerito, diciamo che abbiamo gradito questo Salvatores in versione cineteatrale, quindi adesso non resta che sperare che la godibilissima pausa sia terminata, e si torni a racconti dalla dimensione più cinematografica.