Complici del silenzio, recensione

Argentina 1978, il giornalista italiano Maurizio Gallo (Alessio Boni) insieme al fotoreporter Ugo Ramponi (Giuseppe Battiston) approda a Buenos Aires in occasione dei Campionati del mondo di calcio per svolgere il ruolo di inviato. Non appena giunto nella capitale Gallo coglie l’occasione per incontrare uno zio emigrato nel paese anni addietro, incontro a cui parteciperà anche Pablo Pere (Juan Leyrado), un personaggio piuttosto in vista e marito della cugina di Gallo, qui il giornalista avrà un primo approccio con il regime militare di Videla, di cui Pere è un rappresentante e i parenti di Gallo taciti sostenitori.

Durante la sua permanenza in città Gallo incontrerà Ana (Florencia Raggi), ex-moglie di un amico argentino rimasto in Italia a cui consegnerà del denaro da parte dell’amico e con cui instaurerà una fugace relazione, mentre comincerà supportato dal collega fotoreporter a raccogliere testimonianze ed episodi che mostreranno la dittatura in tutta la sua crudeltà ed insidiosa censura, arrivando a toccare con mano la tragedia e la piaga dei desaparecidos diventando egli stesso un sequestrato in ostaggio della dittatura militare, assistendo a soprusi e torture inferte a chiunque provi ad opporsi al regime.

Il regista Stefano Incerti, dopo l’intenso L’uomo di vetro con Complici del silenzio torna a pescare da accadimenti reali e ci mostra un’altra dittatura stavolta non mafiosa, ma altrettanto insidiosa ed omicida, quella che ha insaguinato l’Argentina portandola sull’orlo della guerra e figliando la piaga dei desaparecidos, oppositori del regime che sparivano letteralmente senza lasciare alcuna traccia dopo aver subito torture e umiliazioni e che ad oggi, raccolti in una sorta di immensa fossa comune virtuale in cui giacciono oltre trentamila vittime, chiedono giustizia.

Incerti fa un ottimo lavoro a livello narrativo cercando di andare incontro allo spettatore che si ritrova nel bel mezzo di accadimenti di cui magari conosce solo a a grandi linee l’evolversi e lo guida attraverso un racconto particolarmente sentito e ben interpretato, capace di trasmettere il giusto senso di indignazione senza perdersi nel didascalismo, cercando di contro  un ritorno emotivo dallo spettatore instillando piccole dosi di consapevolezza, il resto lo fa la verità storica dell’ignobile catena di eventi innescati dalla dittatura di Videla, ancora oggi una ferita aperta troppo dolorosa per guarire e troppo importante per poterne cancellare il ricordo.

Note di produzione: la dittatura del presidente ed ex-militare Jorge Rafael Videla Redondo, che salì al potere con un colpo di stato ai danni di Isabelita Perón, durò dal 1976 al 1981.